Filo diretto per la pace. Quella di marzo è stata l’ennesima missione statunitense del più americano tra tutti i premier dello Stato ebraico. In agenda, oltre all’incontro con Obama alla Casa Bianca, Netanyahu aveva l’annuale conferenza di Aipac, la lobby pro-Israele negli Stati Uniti. Ed è in quest’ultima sede che il premier israeliano, con il suo keynote speech, ha ribadito pur nelle forme cifrate della retorica politica i termini e limiti dell’impegno del governo per un accordo di pace con i palestinesi.

L’intervento di Netanyahu si articolava su tre livelli. Primo, il richiamo di principio, ancorché generico, alla ricerca della pace da perseguire però non a qualunque prezzo, e certamente non al prezzo della sicurezza di Israele. Secondo, un impianto narrativo giocato sul messianismo dell’opposizione tra forze del bene e del male come non se ne sentivano forse dalla dipartita di George W. Bush dalla Casa Bianca, nel 2008. Infine, l’esplicita condizione negoziale che l’Autorità nazionale palestinese riconosca la natura ebraica dello Stato di Israele. Un modo, quest’ultimo, per dire che non ci sarà accordo fintantoché i palestinesi non faranno marcia indietro su alcune delle loro rivendicazioni storiche: sul diritto di ritorno per i rifugiati palestinesi delle guerre del 1948-49 e 1967; sullo status di Gerusalemme Est quale capitale del futuro Stato di Palestina; sull’identità delle forze di sicurezza dislocate lungo la frontiera Est della Cisgiordania con il Regno hascemita di Giordania, sì in territorio palestinese ma soprattutto a tutela dell’integrità delle frontiere israeliane.

Le condizioni del premier Netanyahu anticipano di pochi giorni lo scoccare dell’ora x per i negoziati di pace tra Israele e Autorità palestinese. È fissata ad aprile, infatti, la scadenza del round negoziale che le parti israeliana e palestinese hanno sottoscritto lo scorso settembre a Washington con il mediatore statunitense. In assenza di un impegno a prolungare questa tornata di negoziati oltre la scadenza programmata, tra poche settimane ogni alibi sarà buono per arroventare le tensioni e far riprecipitare le relazioni tra governo israeliano e palestinesi a Gaza, Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Non stupisce, allora, che nell’incontro di qualche giorno fa nello Studio Ovale il presidente statunitense abbia ribadito a Netanyahu tutta l’urgenza di una intesa, anche solo preliminare, con i negoziatori palestinesi. Arrivati a questo punto di esposizione politica personale, l’amministrazione Obama non può più permettersi fallimenti. E Netanyahu, il premier americano d’Israele le cui dotazioni di bilancio per la difesa dipendono quasi interamente dal portafoglio statunitense, cercherà verosimilmente di compiacere, o almeno di non dispiacere, i cugini americani.

Se questa tornata di negoziati dovesse concludersi con un impegno a rincontrarsi, che le indiscrezioni diplomatiche da Gerusalemme e Tel Aviv parafrasano in un istituzionale “piano preliminare tra le parti”, il Medioriente si sarà almeno risparmiato la riapertura delle tensioni anche sul fronte israelo-palestinese. Conviene agli israeliani per non far precipitare la situazione, e prolungare i negoziati ad libitum. Conviene al presidente Abbas per controbattere alle critiche crescenti del governo secessionista di Hamas a Gaza. Conviene a John Kerry e al presidente Usa per dare ragione del protagonismo diplomatico assunto dalla Segreteria di Stato della seconda amministrazione Obama.

Se invece anche questo esiguo risultato non fosse raggiungibile, allora ci sarà realmente di ché temere per il futuro della regione. Con Hezbollah che preme alle porte settentrionali e nord-orientali, la Siria in fiamme, e le minacce alla sicurezza nazionale provenienti da Sinai, Striscia di Gaza e Iran, a quel punto il governo Netanyahu potrebbe decidere di accentuare i connotati più prettamente muscolari della sua politica di sicurezza. Anche i palestinesi nell’Anp, d’altra parte, in assenza della più modesta bozza di accordo provvisorio con gli israeliani potrebbero ripiegare in un governo di unità con Hamas a Gaza, riaprendo la stagione delle tensioni di piazza e della guerriglia di bassa intensità tra militanti palestinesi e forze di occupazione israeliane. 

Uno scenario funesto, che tutti i protagonisti dicono di voler evitare, ma che soltanto un “piano preliminare” che estenda i negoziati oltre aprile può allontanare. Le prossime ore di filo diretto tra Washington, Gerusalemme e Ramallah, e con la fragile, parziale e intermittente ma sempre più assertiva presenza di Bruxelles, saranno decisive per determinare le condizioni di pacificazione di questa antica provincia del Levante.