“Salto nel vuoto o suicidio assistito?”. È già storia la domanda che Beppe Grillo, a Parma, urlò in una Piazza della Pace stracolma di gente (più di 5 mila persone), una settimana  prima del ballottaggio. Perché storica è stata la scelta dei parmigiani: l’elezione di Federico Pizzarotti, primo sindaco M5S in una città importante.

Un salto nel vuoto, appunto. Un rischio, un azzardo. Prodotto dal disastro delle finanze comunali e dalla bufera giudiziaria, ma reso possibile dall’incapacità dei partiti politici, in primis del centrosinistra, di capire che era scaduto definitivamente il tempo dell’alternanza nominale, delle “pagine da voltare” lasciando inalterata la narrazione. E soprattutto il personale politico: amministratori a vita, a prescindere dalle vittorie e soprattutto delle sconfitte. Nel caso di Parma in sede dal 1998.

È in questo contesto che il vincente predestinato, il presidente della provincia Vincenzo Bernazzoli, ha perso la partita che non poteva perdere, sbagliando “un rigore a porta vuota”. Senza questa sciagurata supponenza, speculare a quella del centrodestra, presentatosi alle elezioni con lo slogan “A testa alta” (più che temerario, folle), il “grillismo di governo” non avrebbe preso forma. Esso scaturisce infatti dall’autodafé della politica e dei politici tradizionali. Ricordarlo serve anche per sottolineare quanto la “lezione parmigiana” sia stata sottovalutata, circoscritta alla specificità ducale, un misto di snobismo e pulsione anarcoide che segna la storia di Parma nell’ultimo secolo. Insomma, un’eccezione, un’anomalia, qualcosa di non replicabile. Con il risultato che si è visto nelle recenti elezioni, dove il M5S ha trionfato.

Si è cioè riproposto sul piano nazionale il film già visto a Parma di una visione quasi “aliena” del movimento, dove il giudizio, ma più spesso il pregiudizio, prevalgono largamente sull’analisi. Prescindendo anche da un dato di fatto epocale del quale il M5S è espressione. Fenomeno e non causa, sia ben chiaro. Ossia la grande transizione in atto, il sommovimento epocale che ogni giorno vede crollare una certezza, sparire mestieri e professioni, imporsi nuove pratiche e soprattutto estendersi il ruolo e la funzione del web.

Certo, si fatica molto a comprendere che siamo dentro una rivoluzione vera. Anomala, perché pacifica, ma come ogni rivoluzione nemica di tutto ciò che è o appare vecchio, e come tale incapace di dare risposte e rappresentanza a bisogni nuovi. Tuttavia è indubbio che, al di là delle convinzioni e dei desideri personali, il “grillismo di governo” in corso a Parma meriti la “fatica del concetto”. Sono cinque i punti su cui dovrebbe concentrarsi la riflessione sull’esperienza parmense.

Primo: la giunta Pizzarotti si arenerà alla prima seria difficoltà. Non mangerà il panettone, si disse e scrisse all’indomani della vittoria. Invece si accinge a mangiare la colomba pasquale, forte anche del successo elettorale del M5S alle politiche (passato al 26%, dal 17% delle amministrative). L’onda lunga nazionale ha concorso, però i parmigiani hanno evidentemente apprezzato gesti simbolici forti e concreti (il taglio delle auto blu e delle spese di rappresentanza, per un valore di più di 1 milione di euro). Quelli promessi da sinistra e destra negli ultimi dieci anni e mai realizzati.

Secondo: gli amministratori grillini sono giovani, “nuovi”, ancora alieni e l’effetto positivo di novità viaggia sulla bicicletta con cui il sindaco Pizzarotti va quotidianamente in municipio. E quest’immagine, al pari dell’accredito che gli amministratori grillini non rubano, rappresenta una novità dirompente, che fa largamente aggio su tutto il resto, anche sull’accusa di dilettantismo, di settarismo e di “mancata rivoluzione” che vien loro rimproverata. Soprattutto dagli avversari.

Terzo: i grillini si dichiarano a-ideologici, anche se il grillismo è un’ideologia. Però loro, per bocca del sindaco, amano ripetere di essere convinti che “le ideologie dividono, mentre le buone idee uniscono”. In realtà, se non è una sciocchezza, è vero il contrario. Però alla cittadinanza questo discorso semplificatorio piace, perché è fondamentalmente anti-casta e anti-partiti, profuma di buon senso e di pragmatismo. Ampiamente dimostrati, peraltro, nella vicenda dell’apertura dell’inceneritore, dove i proclami della campagna elettorale – “ne impediremo l’apertura in ogni modo” – si sono riconvertiti nel ben più realistico “vigileremo”. Insomma real politik, a dispetto delle sparate sulla decrescita felice.

Quarto: il M5S è e resta un movimento o non-partito d’opinione. Di transizione fra ciò che si sta liquefacendo e ciò che non si sa bene cosa potrà essere. È un passaggio, non una soluzione. Ma, dopo Parma, le elezioni regionali siciliane e quelle nazionali del 24 febbraio, è ormai chiaro a tutti che nulla potrà più essere come è stato.

Quinto: la presenza sul territorio e il web, così come viene raccontata dai media, è una leggenda. Meet up suona bene, ma nei vari presidi e banchetti allestiti sulla pubblica via gli attivisti a 5 Stelle sono i classici quattro gatti. Non si segnalano poi usi particolarmente innovativi o strategici del web e dei social network. La Rete funziona (molto) più come immagine e rappresentazione della realtà che non come effetiva agorà popolare, come auspicio e richiesta di orizzontalità del processo decisionale e di "disintermediazione"(termine, questo, che faremo bene ad appuntarci). Fine, cioè, degli intermediari (si chiamino partiti, sindacato o media tradizionali) e relazione e accessi diretti. Uno vale uno, amano ripetere i grillini. Anche se due (Grillo e Casaleggio) valgono più di tutti loro messi assieme.

Certamente questa è una strana, anomala concezione di democrazia. Ma il crollo della rappresentanza e della legittimità del potere e della politica non può essere addebitato ai grillini. Piaccia o meno, essi si limitano a dimostrare che la democrazia, se non l’ultima, al momento è la penultima preoccupazione degli italiani.