Alle ore 20 di questa sera termina il pontificato di Benedetto XVI. Non per la morte del Papa, ma per la conclusione volontaria, liberamente decisa dal Pontefice, com’era possibile, ma di fatto così inesistente nella prassi storica del Papato che quasi si esita a capire e valutare che cosa sia successo a Roma, e quale ne sia il vero significato per la Chiesa cattolica. Scrivo prima del Conclave che si svolgerà per darci il nuovo “secondo” e tuttavia “unico vero Papa”; unico e vero senz’altro, ma un po’ diverso perchè il non morto papa, sia pure silenzioso e senza ministero pubblico, si saprà esistente, raccolto in mitissima e umile preghiera, ma vivo e pensante tra noi.
Una collaboratrice familiare, nativa delle Marche che, per secoli, furono terra dello Stato Pontificio, a me bambino un giorno raccontò che nel suo paese era abituale un proverbiaccio popolare romano, che diceva così: “Morto un Papa, fatto un altro / viva questo, accidenti a quell’altro”. Proverbio un po’ volgare, certo, ma seriamente istituzionale nel primo verso del distico e profondamente culturale nel secondo. Ora si può temere il rovesciamento della battutaccia, “accidenti a questo, viva quell’altro”. In realtà, per ora, non sappiamo quasi nulla delle interpretazioni popolaresche o dotte che potranno accompagnare la novità ora “attualizzata” nella successione dei papi da quel “decisionista inatteso” che si è rivelato papa Ratzinger (forse, sulle orme di Roncalli, è bene per i pontefici camminare in vista delle avvertite necessità obiettive…).
Certo, un po’ cambia la condizione del vero papa, cioè del Papa in servizio mentre chi lo ha preceduto nel compito espletato di servo dei servi, è ancora vivo; questo status si modifica dal momento che fa differenza essere nella tomba, in attesa della Risurrezione, o ancora vivo, in un convento o in un eremo adatto al papa Emerito: “un monaco nel recinto di San Pietro”, come Ratzinger si è definito. Influenza spirituale, specie nei giorni in cui il nuovo eletto prenderà decisioni importanti di significati e sviluppi.
Ad ogni modo, la scelta di Benedetto XVI a me pare grande, giusta, e me lo ha reso carissimo, per quello che forse gli ha pesato e, ancor più, per quello di buono che cerca di favorire, nell’umiltà (e nel segreto) di questa decisione. Il Papa ha deciso di contare, non da solo, ma nella comunità di intenti e di valutazioni quali possono esistere al vertice della Chiesa, lasciando ad altri di fare (se e come vorranno) ciò che lui, come Papa Ratzinger, ora conosce importante e forse urgente: ma non si crede in grado, per risorse e per tempo, di potere realizzarlo tramite sue iniziative. Salvo quella di fare un famoso “passo indietro”, che però sarà poi sempre in avanti di un altro, interessante (e libero) nella sua individualità e responsabilità di “successore”, scelto – è augurabile - con certe doti, intenzioni, e più sufficiente disponibilità di tempi.
Un ecclesiastico della competenza e della qualità di Martini disse non molto tempo fa che, forse, i ritardi della Chiesa gli parevano di almeno duecento anni. Ma molto più lungo è il salto che un ecclesiastico di cultura attenta al valore della tradizione cattolica e alla importanza della sua continuità come Papa Ratzinger, ha compiuto con la decisione di favorire con questa sua saggia, umile, coraggiosa e generosa decisione di “liberare” e accelerare tempo di lavoro (speriamo fedele) e di governo, preparato giusto da molti, al vertice della Chiesa. Praticando una misura fin qui trascurata di “collegialità” autentica e familiare, nella Chiesa cristiana più mondiale che esista nella storia, e nella figura che da sempre è posta a confermare e sostenere apostoli e discepoli del Signore Gesù.
Nei Vangeli la motivazione della singolarità e preminente rilevanza della responsabilità “petrina” si presenta in contesti davvero di “divina genialità”: Simone è chiamato Pietro più volte da Gesù, ma con più intensità per la risposta data alla domanda “e tu chi dici che io sia?”, risposta data giustissima, ma non per merito di intelligenza o di studio, ma di rivelazione accolta nello spirito e dallo Spirito. E con più severità nel contesto di una triplice domanda finale dell’ultimo Vangelo, “Simone, mi ami tu più di costoro?”, che ripeteva e riparava la triplice negazione resa nella ora di paura, quando poi lo sguardo di Gesù raggiunse Pietro al canto di quel gallo che gli ricordò la consapevolezza con cui l’amato maestro sapeva che “per tre volte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai questa notte stessa”.
E Pietro, udito il gallo, “uscì nella notte”, e pianse.
Di Benedetto XVI non sappiamo, o non è scritto che io sappia, se abbia raggiunto analoghe confidenze nello spirito col suo e nostro Signore; ma la sua condizione di Papa, cioè di successore di Pietro nella sua funzione di sostegno dei fratelli apostoli, non stupirebbe ci fosse qualche conferma o analogia. Ore notturne e di un’umiliazione collettiva, io suppongo non siano mancate nell’esperienza dolente di Benedetto XVI. Ma con la sua decisione, che sta per compiersi, alle ore 20 di questo 28 febbraio 2013, è maestro grande, perchè ricorda a tutti noi la profondità di ogni vita interiore che, a un certo punto (e più volte) si confronti con le proprie responsabilità storiche e consumi, in umiltà ma in fermezza. La decisione che senta più forte e più giusta nella propria coscienza.
In questo secolo, la Chiesa si è già affacciata con tanti suoi figli sulle consapevolezze che Vangelo e storia intrecciano di dolore gioioso e di gloria, troppo spesso anche umiliante. Ma la decisione di deporre in vita la condizione più alta ricevuta di servo dei servi, non per fuggire una fatica o una responsabilità da cui si voglia uscire, ma per liberare le energie sinodali e di comunione più appropriate al compito che solo nella prova esercitata si conosce con competenza proporzionata ai bisogni, ci assicura della migliore efficacia della fatica del servo, nel quale la misteriosa consapevolezza della propria inutilità è la garanzia più alta della qualità del suo impegno e del rendimento del suo lavoro.
Dopo il Vaticano II, abbiamo un’altra grande prova di quanto la Chiesa sia viva, anche nella crescente complessità della sue strutture, nel suo habitat di durata millenaria e di espansione spaziale.
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