Why we hate politics è il titolo di un bel libro di un politologo inglese di qualche anno fa che racconta in maniera efficace quale sia la risorsa di cui, più di ogni altra cosa, i politici contemporanei hanno bisogno. In un clima di corrosiva antipolitica, più del denaro per le campagne elettorali, più dell’aspetto giovanile dei leader, sicuramente più della leggibilità del programma, i partiti necessitano di legittimazione sociale e politica. Se ciò è vero nei periodi di “normalità” della vita politica, la credenza nella legittimità diventa un bene ancor più prezioso durante la campagna elettorale. Si apre allora la caccia per reperire risorse extra-politiche che consentano ai partiti e ai leader politici di guadagnare credibilità agli occhi degli elettori. Sul punto, in questi ultimi vent’anni, gli esempi si sprecano: dal Berlusconi che fonda la sua legittimazione politica sull’essere un imprenditore di successo; al Renzi che basa il suo appeal politico su un dato anagrafico; ai tecnici “prestati” alla (ma poi non restituiti dalla) politica; alla Lega che inventa una tradizione (la Padania); al Movimento 5 Stelle che candida solo chi può esibire una verginità partitica.
Sebbene non sia un fenomeno del tutto nuovo, in questa campagna elettorale appare evidente che anche l’antimafia sia usata come risorsa di legittimazione politica. Una risorsa che serve a parare i colpi dell’antipolitica, giudicata (a ragione) l’anticamera dell’astensionismo. Molti dei partiti in campo hanno dunque fatto ricorso all’antimafia per dirigere l’attenzione dei cittadini-elettori su un terreno sul quale è agevole ottenere consenso. La precondizione per la buona riuscita dell’operazione è data dall’esistenza di un’immagine pubblica impressionistica delle mafie, non imputabile alla politica, ma che segue logiche proprie. Un’immagine che fa di un “fenomeno umano”, come la definì “laicamente” Giovanni Falcone, un mostro sfuggente e onnipotente. Basti qui ricordare la bufala dei 44 miliardi di “fatturato” annuo della ‘ndrangheta, da molti acriticamente riproposta, o il sottotitolo della Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia della scorsa legislatura: “‘Ndrangheta. Boss, luoghi e affari della mafia più potente al mondo”.
Se si considera il valore simbolico dell’antimafia in campagna elettorale, la prima persona che viene in mente è necessariamente Antonio Ingroia. A dispetto del nome, Rivoluzione civile ha al suo interno pezzi importanti dei partiti di quella sinistra spazzata via dal Parlamento dall’appello veltroniano al voto utile del 2008. Pezzi di partiti che hanno giudicato azzardato presentarsi sotto una qualche etichetta politica “tradizionale” e scelto di affidare la leadership a uno dei magistrati simbolo della lotta alla mafia: da un lato, timore dell’antipolitica; dall’altro, rilancio con l’antimafia. Se questi sono i presupposti, va da sé che uno dei temi più caldi della comunicazione politica di Ingroia sia proprio la mafia e ciò che ci sta attorno; tema sul quale ha certamente buon gioco nel confronto con gli avversari e che gli permette anche qualche colpo a effetto, anche se politicamente poco corretto, come evocare a vent’anni di distanza dalla sua tragica morte i giudizi che Paolo Borsellino avrebbe espresso su Ilda Boccassini.
Sul terreno dell’antimafia, anche il Pd non è rimasto a guardare, candidando come capolista al Senato nel Lazio Piero Grasso, la persona che più di tutti, per il ruolo istituzionale fin qui rivestito, incarna la lotta alle mafie nel nostro Paese. Il PdL è stato invece costretto a giocare in difesa, non ripresentando Marcello Dell’Utri ed escludendo all’ultimo, dopo molti avanti e indietro, Nicola Cosentino. Per non lasciare il vessillo dell’antimafia nelle mani dei partiti avversari, proprio perché è un tema capace di portare consenso, il PdL è andato anche al contrattacco. In Calabria, ad esempio, è seconda in lista alla Camera Rosanna Scopelliti, coordinatrice nazionale di “ammazzateci tutti” e, soprattutto, figlia del magistrato Antonino, ucciso dalla ‘ndrangheta nel 1991. La candidatura è rivendicata e difesa con orgoglio da Giuseppe Scopelliti, governatore della Regione e coordinatore regionale del PdL. Per il governatore la candidatura della giovane attivista antimafia è un modo per ridare smalto alla sua figura politica, negli ultimi tempi appannata dagli arresti di alcuni consiglieri regionali della sua maggioranza accusati di contiguità con le cosche mafiose, nonché dal buco di bilancio e dallo scioglimento del comune di Reggio Calabria, di cui, per 8 anni, lo stesso Scopelliti è stato sindaco.
Da ultimo, se perfino un politico “d’esperienza” come Marco Pannella pone come condizione per interrompere il suo più recente sciopero della fame la candidatura di Roberto Saviano (oltre che di Vasco Rossi) tra le file radicali, significa davvero che l’antimafia è oggi considerata una risorsa politica di gran pregio.
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