Alemaz Tekle, Aziza Yemane, Froini Brahane, Salomon Zahaye, Sultan Alem, Dawit Kasa, Sekkadu Yemane, Helen Mamu, Abraham Tseggai. Nove nomi, scritti con una penna blu, in stampatello, su un pezzetto di carta strappato al volo da un taccuino, e ormai ingiallito dal tempo. Lo tenevo piegato in due dentro una tasca del portafoglio. E l'ho ritirato fuori soltanto oggi, quando "il Mulino" mi ha chiesto di commentare la morte dei 54 naufraghi sulla rotta per Lampedusa. Sono passati tre anni da quella sera. Dall'altra parte della linea c'era una signora eritrea. Telefonava da Stoccolma, in Svezia. Fu lei a dettarmi i nomi. Uno era suo fratello, gli altri erano amici di Asmara. L'ultima volta li aveva sentiti una settimana prima, da Tripoli, mentre si stavano imbarcando per l'Italia. Poi niente. Il mio numero l'aveva avuto tramite amici comuni della comunità eritrea-tedesca. Mi chiedeva con insistenza una prova, un dettaglio, o anche soltanto un piccolo dubbio a cui aggrappare la propria residua speranza. Ma fu tutto inutile. Era il settembre del 2009 e da allora di quei naufraghi non se ne è saputo più niente. L'unica traccia che conservo di loro sono quei nomi scritti su quel pezzetto di carta. Stavolta invece non c'è nessun nome. C'è soltanto un numero: 54. Pari al numero delle vite che il mare si è ingoiato. Senza che nessuno intervenisse per soccorrerli. Eppure quello è un tratto di mare battutissimo. Quanti pescherecci, quanti mercantili, quante navi militari incrociano tra la Libia e Lampedusa? Possibile che nessuno abbia scorto sul radar la sagoma dell'imbarcazione? E se li hanno visti, perché non sono intervenuti? E perché l'Italia tutta adesso finge di non vederli? Anche da morti, preferiamo voltarci dall'altra parte. Evitando accuratamente di chiederci chi fossero quei 54 ragazzi. Come si chiamavano? Quanti anni avevano? Chi li aspettava in Italia? Chi si sono lasciati alle spalle in Eritrea e in Somalia? Che cosa sognavano di fare una volta arrivati? Che cosa sarà l'Italia di domani senza di loro?

Non lo sapremo mai. Per il semplice fatto che non l'abbiamo mai voluto sapere. Si chiama autocensura ed è figlia del razzismo più sottile e insidioso, quello che non si vede, quello che permea il nostro immaginario senza che ce ne rendiamo conto. E che fa sì che la morte di 54 ragazzi al largo delle nostre coste rientri per la maggior parte dei giornalisti nella categoria della normalità, al limite della non-notizia. Ognuno dopotutto ha i suoi ruoli nel gioco delle parti del nostro immaginario collettivo. E gli africani sono quelli che muoiono in mare. È normale, perché stupirsi? Perché approfondire? Basta contarli, dare i numeri, e la notizia è servita.

Certo, se a morire fossero stati 54 italiani sarebbe stato un secondo caso Concordia. E a quest'ora l'ospedale di Zarzis sarebbe assediato dalle troupe televisive di mezzo mondo per intervistare l'unico superstite. Dopodiché sarebbe la volta di Tripoli e Asmara, alla ricerca degli amici, delle madri, delle mogli, dei figli, per offrire al pubblico un ritratto quanto più umano e universale della vicenda dei naufraghi. E poi giù documentari, libri, fiction. E invece tutto questo non accade. E il giorno dopo la tragedia, la notizia si avvia verso il dimenticatoio.

E allora forse è per quello che non ho mai gettato quel foglietto di carta. Perché non è ammesso dimenticare. Perché in quel foglietto c'è scritta la storia. Quella con la esse maiuscola, la storia che studieranno i nostri nipoti, quando nei testi di scuola si leggerà che negli anni Duemila morirono a migliaia nei mari d'Italia e a migliaia vennero arrestati e deportati dalle nostre città. Mentre tutti fingevano di non vedere. Come hanno fatto i marinai che hanno negato il soccorso ai 55 eritrei rimasti alla deriva per due settimane nel Canale di Sicilia. E come fa la stampa che non vede il dramma umano di quelle morti. E non vede prima ancora l'universale umanità di quelle vite.

Ma forse bisognerebbe fare un passo indietro e chiedersi quanto il colonialismo, la guerra e le politiche xenofobe abbiano contribuito a disumanizzare i popoli delle ex colonie europee nel nostro immaginario e dunque nell'immaginario dei giornalisti che producono il discorso pubblico sulla frontiera, riproponendo quella disumanizzazione.  

E allora se non vogliamo che insieme agli almeno 18.345 morti lungo le frontiere europee dal 1988 (Fortress Europe, 2012) muoia definitivamente anche il nostro senso di umanità, oltre a sforzarci per salvare più vite umane dovremmo anche sforzarci di salvare un racconto del mondo. Perché la realtà in fondo esiste soltanto nel racconto che se ne fa. E soltanto ri-umanizzando il racconto che si fa della frontiera e – a monte – dell'Africa, si potrà restituire un nome a quei martiri, evitando così di uccidere due volte i naufraghi del Mediterraneo.