Nella prefazione della seconda edizione del suo Cinéma et Histoire (Gallimard, 1993), uno dei titoli chiave nel dibattito sul rapporto tra il cinema e l’universo storico-sociale, Marc Ferro racconta di quando, negli anni Sessanta, iniziò a ragionare sulla possibilità di usare i film come documento, per realizzare quella che lui chiama una “contro analisi della società” (i film possono smentire quanto pensiamo di sapere sulla base di altre fonti). Il giovane studioso ne discusse con uno dei suoi maestri, il grande Fernand Braudel, il quale gli consigliò: “Fallo, ma non ne parlare”. Braudel era sufficientemente aperto verso le novità per accettare l’idea che uno storico potesse lavorare su testi audiovisivi. Al centro della rivoluzione storiografica della scuola delle “Annales” stava proprio l’invito a imparare a maneggiare nuovi strumenti metodologici e nuovi oggetti di studio. Allo stesso tempo, però, Braudel sapeva che l’istituzione universitaria è naturalmente conservatrice, come ogni istituzione, e quindi era meglio che quel giovane di belle speranze non esibisse in modo troppo vistoso idee così innovative, per non rischiare di mettere in pericolo la propria carriera.

In questi ultimi anni, nell’università italiana si sta verificando un’altra “rivoluzione silenziosa”, per molti versi simile all’ingresso del cinema, e poi della televisione e di quelli che una volta si chiamavano i nuovi media, nelle aule e nei dipartimenti. È l’ingresso del gioco – innanzi tutto digitale, ma anche analogico – come oggetto di studio e di ricerca, anche grazie al lavoro pionieristico di docenti quali Peppino Ortoleva nell’Università di Torino o Antonio Brusa in quella di Bari, e grazie a un legame organico con un quadro internazionale largamente strutturato in termini istituzionali, con dottorati e corsi di studio dedicati.

Da un certo punto di vista, potrebbe sembrare una novità del tutto ovvia e scontata. I videogame rappresentano una delle principali forme di intrattenimento della società in cui viviamo. A cinquant’anni dalla sua nascita, quella del videogame è ormai un’industria ricchissima, i cui introiti hanno superato quelli di Hollywood. Persino Netflix ha dovuto piegarsi, sviluppando una propria area ludica. E non si tratta solo della società contemporanea. In ogni società umana il gioco ha sempre svolto un ruolo importante. Giochi da tavolo sono stati ritrovati negli scavi archeologici in Mesopotamia e in Egitto. Eppure, nei dipartimenti umanistici italiani, dove ci sono persone che passano anni a studiare poeti minori – e addirittura minimi – del Seicento o registi cinematografici le cui opere sono state viste da una manciata di aficionados, normalmente nessuno si occupa di scacchi, Dungeons & Dragons o Grand Theft Auto, oggetti culturali che hanno interessato e interessano milioni di persone di tutto il mondo.

La nostra società percepisce quella ludica come un’attività eminentemente infantile, un’attività che, se praticata dagli adulti, diventa subito una perdita di tempo, o addirittura una minaccia al bilancio famigliare

L’unico ambito universitario dove, da sempre, il gioco è presente è quello dei corsi di studio di pedagogia, perché la nostra società percepisce quella ludica come un’attività eminentemente infantile, un’attività che, se praticata dagli adulti, diventa subito una perdita di tempo, o addirittura, nella sua versione gambling, una minaccia al bilancio famigliare. Si tratta di un pregiudizio davvero molto antico. L’antropologa Roberte Hamayon (oltre agli psicologi dell’età evolutiva, gli altri studiosi che si occupano da sempre di giochi sono appunto gli antropologi, proprio perché il gioco è un elemento costitutivo di qualunque cultura umana) sostiene che la civiltà occidentale ha iniziato a diffidare della dimensione ludica nel momento in cui il cristianesimo è diventato religione ufficiale dell’impero romano (cfr. Jouer. Une étude anthropologique, La Découverte, 2012). Hamayon sottolinea che per liberarsi del suo alone di frivolezza e inutilità, in Occidente il gioco deve diventare altro: competizione sportiva o esercizio militare. E nonostante la secolarizzazione, il mondo occidentale continua a considerare la sfera ludica come un universo che si oppone a ciò che è serio e utile.

Negli ultimi vent’anni, però, una pattuglia di coraggiosi, a partire soprattutto dalle università degli Stati Uniti e del Nord Europa, ha dato vita a un nuovo ambito di studi, capace di superare i pregiudizi e lavorare appunto sul gioco. Almeno all’inizio, il grosso dell’attenzione si è concentrata sul gioco digitale, perché è indubbio che sia stato proprio l’affermarsi dei videogame a produrre la nascita dei game studies, nonostante il fatto che i due grandi seminal books della disciplina, Homo ludens di Johan Huizinga e I giochi e gli uomini di Roger Caillois, pubblicati rispettivamente nel 1939 e nel 1958, siano il prodotto della cultura analogica. La principale associazione internazionale che raccoglie i game scholar, fondata nel 2003, è appunto la Digital Games Research Association (Digra). Ma ormai, a fronte di una vera e propria rinascita, inattesa e sorprendente, dei giochi da tavolo, molti degli iscritti a Digra lavorano indifferentemente sul gioco digitale e su quello analogico. Per molti versi, è la stessa distinzione tra gioco analogico e gioco digitale a essere ormai discutibile, perché la rinascita del boardgame è stata resa possibile dalla Rete, che mette in comunicazione i membri di una comunità altrimenti dispersa e permette ai piccoli editori di vendere i propri prodotti in tutto il mondo. Senza considerare che sempre più spesso ci troviamo di fronte ad adattamenti analogici di videogiochi e viceversa.

Ma che cosa significa “studiare” un gioco? In una certa misura, si studia un gioco più o meno come si studia un romanzo o un quadro. Da un lato, si lavora sul linguaggio, sulla tecnica, sull’interazione tra opera e fruitore, ci si pone dei problemi teorici, a volte anche piuttosto astrusi per i non addetti ai lavori (un esempio qui). Dall’altro, come d’abitudine in area umanistica (ma i game scholar possono provenire anche da altri ambiti disciplinari, dalla sociologia all’informatica), si ragiona sulla dimensione storica e sulla dialettica tra testo e contesto, come fanno – per citare uno dei tanti possibili esempi nella bibliografia più recente – Mary Flanagan e Mikael Jakobsson in Playing Oppression: The Legacy of Conquest and Empire in Colonialist Board Games (Mit Press, 2023), un libro che ricostruisce la genealogia dei giochi da tavolo “colonialisti”, dai boardgame di vera propaganda imperialista realizzati in Europa tra fine Ottocento e inizio Novecento sino ai moderni Eurogame, come I coloni di Catan o Carcassone, la cui meccanica base è proprio quella della colonizzazione di un territorio, di cui i giocatori, per vincere, devono sfruttare al meglio le risorse.

Nell’ambito dei game studies, teoria e pratica tendono a dialogare in modo più frequente di quanto non avvenga normalmente negli studi sulla letteratura o sul cinema

Nello studio del gioco, però, ci sono anche delle differenze significative rispetto alle forme e alle procedure tradizionali delle humanities. Innanzitutto, studiare i giochi del passato, come fanno appunto Flanagan e Jakobsson, significa muoversi in un ambito dove la dimensione archivistica è quasi inesistente. Normalmente, le biblioteche non raccolgono né videogame né giochi da tavolo. Eppure, a mano a mano che le radici dei game studies si fanno più forti anche in Italia, le biblioteche universitarie non potranno che aprire delle sezioni ludiche, come è già accaduto a Torino e Bologna. Ma studiare i giochi presenta anche un’altra differenza importante rispetto alle humanities nella loro accezione tradizionale. Nell’ambito dei game studies, teoria e pratica tendono a dialogare in modo più frequente di quanto non avvenga normalmente negli studi sulla letteratura o sul cinema, non solo in Europa, ma persino negli Stati Uniti, dove spesso gli storici del cinema hanno dentro al proprio dipartimento o in un dipartimento vicino una mezza dozzina di docenti che si occupano di linguaggio audiovisivo in termini realizzativi.

I game scholar spesso sono anche game designer. Soprattutto se parliamo di giochi analogici, concepire un gioco è un fatto in buona parte teorico, che non presenta eccessivi problemi di tipo tecnico. E anche per quanto riguarda i videogame, per realizzare i quali è necessario saper programmare, si tratta di un ostacolo insormontabile solo per coloro che, come il sottoscritto, sono approdati ai game studies avendo passato i quarant’anni, come forma socialmente accettabile di crisi di mezza età. E anche sotto l’aspetto dell’interazione tra studio e ricerca da un lato e produzione creativa dall’altro, l’Italia sta facendo molti passi avanti.

Alla prossima edizione di Modena Play, la più importante convention italiana di giochi analogici, che avrà luogo tra il 17 e il 19 maggio del 2024, saranno presenti gli stand di diversi atenei italiani, che proporranno prototipi o giochi da tavolo già perfettamente finiti, realizzati da docenti e/o studenti. Come ha detto più volte Jim Dunnigan, una delle figure di maggior peso nell’ambito dei giochi di simulazione storica, “se li sai giocare, li sai realizzare”.