«Se il primo problema è la povertà educativa ed è così, allora perché pensiamo solo a bocciare? A come selezionare i ragazzi e non a come farli arrivare in fondo?». Nelle prime pagine del libro di Annalisa Cuzzocrea Che fine hanno fatto i bambini (Piemme, 2021), durante l’intervista a Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, viene toccato uno degli aspetti a mio avviso più gravi e meno discussi della grande emergenza educativa a cui stiamo assistendo. Mentre il dibattito pubblico e politico si concentra sulla possibilità di bocciare o meno quest’anno, si sta perdendo di vista uno dei problemi principali della scuola: l’abbandono scolastico.
Il ministro Patrizio Bianchi conosce molto bene il tema: nel suo libro Nello specchio della scuola (Il Mulino, 2020) la problematica della dispersione scolastica ci accompagna durante tutta la lettura. Eppure le scuole continuano a subire l’emergenza, i trasporti continuano a non essere sicuri, la didattica a distanza procede pur non essendo accessibile a tutti, le disparità sociali aumentano, come aumenta il malessere degli adolescenti esasperati da una situazione che pare infinita, e l’enorme problema della perdita degli apprendimenti sembra essere svanito nel nulla.
La didattica «a singhiozzo» ha colpito tutti, non solo gli studenti più deboli o chi era in difficoltà prima ancora della Dad. Tutti hanno perso qualcosa, soprattutto i ragazzi e le ragazze delle superiori che in presenza hanno fatto sì e no una manciata di settimane. Ed è proprio per questo motivo che le misure di intervento non possono riguardare solo alcuni ma devono interessare tutta la popolazione scolastica.
Secondo uno studio dell’Università di Oxford sui dati olandesi gli studenti avrebbero subito una perdita di circa il 20% negli apprendimenti, percentuale che aumenta fino a 60% per chi proviene da contesti svantaggiati. Gli indicatori Ocse ci dicono che il 20% in meno negli apprendimenti equivale a un anno di scuola perso. Per il nostro Paese questi dati non sono ancora disponibili data la decisione dello scorso anno di sospendere le prove Invalsi. Avremmo bisogno ancora di qualche mese per comprendere gli effetti della pandemia sui nostri ragazzi, ma, come dicono gli esperti, non c’è nessuna speranza di ritenere che nel nostro Paese il danno sia stato inferiore, anzi.
Ipsos con Save the Children ha stimato che nell’anno appena trascorso hanno abbandonato 30.000 studenti in più rispetto ai 120.000 che già ogni anno lasciano la scuola. Secondo la stessa indagine il 28% degli studenti tra i 14 e i 18 anni conosce almeno un compagno di classe che ha smesso di frequentare la scuola (a distanza o in presenza) dopo il lockdown.
Il divario digitale è diventato un’ulteriore dimensione della povertà educativa, 3 milioni sono gli studenti tra i 6 e i 17 anni che secondo l’Istat potrebbero aver avuto difficoltà nell’accedere alla didattica a distanza per carenza di strumenti adeguati o di connessione. Quindi no, la Dad non è uno strumento democratico, non è per tutti e non arriva a tutti, ma va avanti.
La dispersione scolastica nel nostro Paese è sempre stata un problema e la pandemia ha aggravato la situazione: siamo uno dei Paesi d’Europa con i più bassi livelli di istruzione e il più alto numero di Neet
La dispersione scolastica nel nostro Paese è sempre stata un problema e la pandemia ha aggravato la situazione: siamo uno dei Paesi d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di Neet. Dal recente rapporto Bes (Benessere equo sostenibile) dell’Istat risulta evidente come il nostro Paese non riesca a ridurre la distanza dagli altri Paesi europei per quanto riguarda istruzione e formazione. Nel secondo trimestre 2020 solo il 62,6% delle persone (25-64 anni) ha almeno un diploma superiore, mentre la media europea è del 79%. Peggio di noi solo Malta e il Portogallo. La quota di giovani tra i 30-34 anni d’età in possesso di una laurea o titolo terziario è del 27,9% contro una media europea del 42,1%, dopo di noi solo la Romania. Mentre la quota di Neet, ossia i giovani tra i 15 e i 29 anni d’età che decidono di non studiare, non lavorare e non formarsi, si attesta intorno al 23,9%, in aumento rispetto al 2019 (21,2%).
Inoltre, la dispersione scolastica, quindi i ragazzi e le ragazze che decidono di lasciare la scuola dopo aver conseguito al più un titolo di scuola secondaria di primo grado (scuola media), è del 13,5%. Questi dati riguardano la dispersione scolastica esplicita e, purtroppo, sono solo la punta dell’iceberg. Uno degli aspetti che spesso sfugge alle statistiche è quello della dispersione implicita. Quei ragazzi che pur ottenendo un titolo o un diploma non possiedono livelli di competenze di base sufficienti per esprimere scelte consapevoli che gli permettano, quindi, di affrontare in modo agevole la vita adulta. Questi studenti sono a rischio sociale non avendo le competenze per affrontare il mondo del lavoro andando ad aumentare le fila dei c.d. Neet.
Secondo i dati messi a disposizione da Invalsi (2019) alla dispersione esplicita si dovrebbe andare a sommare un ulteriore 7,1% di dispersi impliciti. Possiamo dunque immaginare che la quota effettiva di dispersi in Italia superi il 20%, un giovane ogni cinque. L’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche in un recente studio Istruzione e mobilità intergenerazionale ci dice che sono 13 milioni gli italiani adulti (25-64 anni) che hanno abbandonato gli studi dopo le medie e solo il 12% dei figli di chi possiede la licenza media riesce a laurearsi, percentuale che sale al 75% se i genitori sono laureati.
Oggi, più che in passato, il contesto familiare risulta essere determinante nella scelta di chi decide di abbandonare prematuramente gli studi. Infatti, per l’Istituto nazionale di statistica i figli di genitori con al più il diploma di scuola media presentano un tasso d’uscita dai percorsi di istruzione e formazione del 24%, percentuale che si riduce drasticamente al 1,9% per i figli di genitori che hanno almeno una laurea.
La scuola dovrebbe essere quell’istituzione che per prima persegue l’equità appianando le disuguaglianze sociali, invece, il nostro sistema scolastico è improntato a dividere e selezionare gli studenti, bocciare o promuovere
La Scuola, quella con la esse maiuscola, dovrebbe essere quell’istituzione che per prima persegue l’equità appianando le disuguaglianze sociali preesistenti. Il nostro sistema scolastico è improntato a dividere e selezionare gli studenti, bocciare o promuovere.
Nel suo ultimo libro, Una scuola di prima classe (Il Mulino, 2020), Andreas Schleicher ci racconta come i sistemi con i risultati più elevati siano quelli che offrono eque opportunità di apprendimento a tutti gli studenti. I risultati dei test Pisa, infatti, mostrano come nessun Paese tra quelli che adottano un alto grado di selezione basata sulle capacità, effettuata mediante differenziazione per livelli, separazione o bocciatura, fa parte dei sistemi scolastici con i risultati più elevati o tra quelli con il più alto numero di top performers. Dato l’alto costo sociale ed economico del nostro basso livello di istruzione, potremmo dire anche che improntare il nostro sistema scolastico sull’esclusione, oltre a essere socialmente ingiusto, risulta anche inefficiente.
Sono anni che non ci stiamo preoccupando di chi abbandona prematuramente gli studi, di chi sparisce dalle statistiche diventando così invisibile. Ma come facciamo a parlare di scuola del futuro se la scuola di oggi ha perso la sua dimensione principale, l’essere cioè «aperta a tutti», come descritto dalla nostra Costituzione?
Prima di parlare della scuola del futuro e delle possibilità che la tecnologia e la didattica a distanza possono offrirci, dovremmo occuparci di chi abbiamo lasciato indietro, sia prima sia dopo la pandemia. Serve un piano nazionale di recupero degli apprendimenti, personalizzato, obbligatorio, rivolto a tutti e dilazionato nel tempo. Serve agire tempestivamente perché l’apprendimento è un processo cumulativo e i mesi estivi rischiano di scavare un baratro da cui sarà complicato risalire. Sarebbe stato utile ripianificare gli ultimi mesi di scuola cercando di distribuire nel tempo le attività didattiche; in quest’ottica doveva leggersi la proposta del gruppo Condorcet di rimodulazione del calendario scolastico. Questa non è stata accolta ma ora sarebbe comunque opportuno, per il bene dei nostri studenti, ripensare completamente i prossimi anni scolastici.
«La scuola si cura», come si è letto negli striscioni alle manifestazioni in piazza con Priorità alla scuola. Quello di cui dovremmo occuparci ora non è chi bocciare o meno, bisogna pensare a come restituire il tempo che la pandemia ha «rubato» ai ragazzi. Gli studenti non hanno colpe, parlare di debiti, recuperi o bocciature è sbagliato, siamo noi società ad avere un debito con loro, non il contrario.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza dovrebbe partire proprio da quelle competenze che mancano. Un Paese che crede che solo una piccola parte degli studenti possa farcela è un Paese che fallisce. Perché, per citare Andreas Schleicher, «è dall’educazione che decidiamo di offrire ai nostri giovani più vulnerabili che si capisce che tipo di società vogliamo essere».
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