Gli incapaci pericolosi. Due domande semplici semplici: che cosa succede quando si personalizza troppo la politica estera? Che cosa avviene quando il leader di un Paese tra i maggiori investitori in Italia fa sparare sul proprio popolo? Succede, inevitabilmente, che l’Italia perde quel poco di credibilità, di appeal e di importanza che le erano rimasti agli occhi dell’Europa, degli Stati Uniti e di tutta la comunità internazionale.

I rapporti tra Libia e Italia sono sempre stati caratterizzati da segnali di crisi, più o meno seria: le infuocate minacce anti coloniali da parte del colonnello, i missili sparati su Lampedusa, “pericolosamente vicina” alle coste africane. Cui hanno fatto seguito, amicizia, cooperazione e cordialità, almeno di facciata. Ma ecco ora il ritorno alle minacce da parte di Gheddafi. Accorgersi di nuovo, e alla buon’ora, che si tratta di un dittatore sanguinario, di un terrorista nei confronti dei suoi stessi “sudditi”, fa riaprire le falle di questo bilateralismo sconcertante, fondato su rapporti che si sono retti solo sul denaro, che hanno affidato al regime di Tripoli la soluzione a due problemi italiani: l’immigrazione clandestina e l’approvvigionamento energetico. Perché di questo si tratta.

L’Italia, il suo attuale governo in particolare e la condotta in politica estera (che con la crisi libica ha toccato le punte massime del “realismo”, paragonabili forse solo a quelle tipiche delle unificazioni nazionali di fine Ottocento) hanno definito le due questioni chiave, i “problemi” da risolvere solo grazie a generosi finanziamenti. Il Trattato del 2008 parla chiaro. Affida un finanziamento ventennale al colonnello per far diminuire gli sbarchi sulle nostre coste, ma ci costringe al ruolo di spettatori (e dunque di complici) ogni qualvolta non vengano rispettati i diritti umani.

Tutto ciò ha fatto sì che l’Italia, nei giorni scorsi, si sia trovata a dover adottare una posizione assai “cauta”, per molti versi insostenibile, mentre le veniva chiesto da più parti di prendere le distanze il più possibile dal leader libico. In particolare, le viene chiesto di prendere le distanze dal Trattato del 2008. Quel Trattato che presuppone che, in caso di un atto ostile nei confronti della Libia (ad esempio da parte americana), il nostro Paese debba negare l’autorizzazione per far partire dal proprio territorio navi o aerei ostili a Tripoli.

In questi giorni l’accordo pone inoltre un altro problema, anche agli osservatori più distratti. Vale a dire se i due Paesi “amici” condividano un sistema valoriale. Tali valori in realtà non esistono: la leadership libica non aspira ad alcuna democratizzazione, mentre dal canto suo l’Italia dovrebbe pretendere che si attuino i processi democratici da parte dei suoi più stretti alleati. Occorrerebbe dunque, innanzitutto, dissociarsi, anche dal punto di vista dei trattati.

In secondo luogo bisognerebbe porsi urgentemente il problema di come rifarsi un’immagine nei confronti delle giovani generazioni del Maghreb che chiedono più libertà. Il rischio di apparire un Paese vecchio e legato solo agli interessi economici e di realpolitik dovrebbe essere ormai ben chiaro. Infine, servirebbe un ripensamento della nostra politica nel Mediterraneo, ma all’interno del contesto europeo. Utilizzando la cooperazione, piuttosto che il bilateralismo, svincolandosi dall’idea dello sviluppo top down e dando un senso preciso alla nostra cruciale collocazione geografica, al centro del Mediterraneo.

Potremmo essere attori importanti sia per l’Unione europea sia per gli Stati Uniti. Si tratterà di vedere se sapremo recuperare il tempo perduto e mostrarci capaci di riposizionarci con intelligenza o, invece, continueremo a dimostrarci incapaci di farlo.