Obama e la dottrina Monroe. La questione dei rapporti tra gli Stati Uniti e gli altri paesi del continente americano era passata sotto silenzio nel corso della campagna elettorale del 2008 e continua ancora a essere in buona misura trascurata nel dibattito politico statunitense. Paradossalmente è stata proprio l’influenza “messicana” a ricordare agli Stati Uniti la necessità di considerare la parte centro-meridionale del continente come un’area non priva di incognite.

Da più punti di vista, infatti, alla scadenza dei primi cento giorni alla Casa Bianca, Barack Obama si è trovato di fronte a “due Americhe”. Sul fronte interno, all’America solidamente maggioritaria che lo ha votato il 4 novembre 2008 si contrappone un’America composta da una sparuta minoranza politicamente sempre meno rilevante (per la crisi sempre più evidente del Partito Repubblicano) ma ancora visibile e rumorosa (attiva nei “tea parties”, le manifestazioni anti-tasse e anti-governo del 15 aprile sponsorizzate da Fox News). Questa spaccatura ha parzialmente oscurato un altro incontro tra due Americhe - l’America del Nord e l’America Latina e caraibica – avvenuto in occasione del quinto “Summit of the Americas” tenuto a Port of Spain (Trinidad and Tobago) tra il 17 e il 19 aprile 2009. Nel dibattito interno agli Stati Uniti il summit ha attirato l’attenzione (principalmente della destra neo-conservatrice) per la stretta di mano tra Obama e Hugo Chavez e per le prime ripercussioni del cambio di strategia della Casa Bianca nei confronti di Cuba (assente dal summit perché sospesa dalla “Organisation of American States” nel 1962 in seguito alle pressioni degli Stati Uniti). 

Ma il summit è stato anche l’occasione per lanciare alcune importanti dichiarazioni della “dottrina Obama” in politica estera, una dottrina che non è ancora del tutto definita agli occhi degli osservatori internazionali, ma che ha alcuni punti fermi. Il primo è che gli Stati Uniti rimangono la nazione più ricca e più potente del mondo, ma che non può risolvere da sola nessuno dei problemi globali. Il secondo elemento è rappresentato dal fatto che gli Usa sono portatori di un “set” di valori e ideali universali di democrazia e di libertà che può essere “esportato” in tutto il mondo - compatibilmente con le differenze storiche e culturali tra i vari paesi - tramite la forza dell’esempio. Al summit delle Americhe Obama ha trovato un’accoglienza da star – a dispetto della controversa tradizione di “attivismo” degli Stati Uniti sul continente - sia da parte dei leader che delle opinioni pubbliche dei paesi dell’America latina. Nonostante lo stallo della riforma dell’immigrazione e gli ostacoli all’applicazione dell’accordo NAFTA, il dossier dei rapporti Usa-Messico si è riaperto con una rinnovata collaborazione nella lotta alla droga e sul riconoscimento che la “guerra dei cartelli” per il controllo del mercato dei narcotici in Messico deve coinvolgere più attivamente Washington sul fronte di una maggiore regolamentazione del mercato delle armi e sull’intensificazione della lotta al traffico di stupefacenti. Il calo del prezzo del petrolio ha ridimensionato le ambizioni di Hugo Chavez, che non è riuscito a rubare la scena a Obama, nonostante i suoi tentativi di provocare un presidente che fa invece della imperturbabilità uno dei suoi tratti caratteristici. Il presidente brasiliano Lula, invece,ha salutato con favore la nuova era di rapporti tra Stati Uniti e il resto del continente, nonostante il silenzio del comunicato finale del summit circa l’embargo contro Cuba.

Sulla questione di Cuba, infatti, si gioca il cambio di passo dell’amministrazione Obama nel continente americano. Quello che nell’ultimo mezzo secolo è stato un tabù intoccabile nella politica estera di Washington - il mantenimento dell’embargo - ha conosciuto nelle ultime settimane alcune deroghe, ancora parziali ma non per questo meno significative, soprattutto sul piano simbolico. Il ricambio generazionale all’interno dell’emigrazione cubana negli Stati Uniti (concentrata specialmente in New Jersey e in Florida) potrebbe rendere possibile la fine dell’isolamento dell’isola caraibica, controllata da un regime che viene giudicato in fase terminale. Fino ad ora il maggiore sostegno che il castrismo ha ricevuto era paradossalmente rappresentato dall’embargo. Come in altre aree della politica estera americana, l’amministrazione Obama ha deciso di archiviare gli atteggiamenti e di concepire, invece, delle politiche.