Il rimpasto di Zapatero. Atteso da tempo, il rimpasto (l’ottavo in sei anni) del governo Zapatero del 20 ottobre ha avuto una portata che è andata ben oltre le previsioni degli analisti. L’operazione è stata senza dubbio intelligente. Forse troppo intelligente per non apparire anche furba. E gli spagnoli, a differenza degli italiani, non considerano la furbizia una virtù politica. In caduta verticale di popolarità, con sondaggi che danno circa 10 punti di distacco a favore del Partito popolare di Rajoy nelle intenzioni di voto, reduce dallo sciopero generale del 29 settembre contro il suo governo e dalla sconfitta della propria candidata nelle primarie per la presidenza della Comunità Autonomia di Madrid, a riprova di una crisi di leadership anche presso gli elettori socialisti, che cosa ha fatto Zapatero? Ha portato anzitutto alla vicepresidenza del governo il responsabile degli Interni, Alfredo Pérez Rubalcaba, il ministro più apprezzato dagli spagnoli stando a tutte le inchieste, l’uomo forte nella lotta contro l’ETA, ma anche il politico di lungo corso, entrato nel governo nel 1988, poi ministro dell’Educazione e della ricerca dal 1992 al ’93, indi dei rapporti con il Parlamento (1993-96). Un segnale di continuità, dunque, con gli anni della presidenza e il partito di Felipe González. Ha collocato al ministero del Lavoro Valeriano Gómez, un economista proveniente dal sindacato socialista (UGT), un uomo del dialogo con i sindacati, sceso in piazza, tra l’altro, con i manifestanti in occasione dello sciopero generale del 29 settembre. Un segnale di apertura, dunque, nei confronti del mondo del lavoro, in vista dell’aspro scontro sulla riforma del mercato del lavoro. Ha promosso la sua creatura, già responsabile dell’organizzazione del partito, Leire Pajín, a ministro della Sanità, strizzando gli occhi ai giovani con una giovane donna (classe 1976). Ha collocato al ministero dell’Ambiente, la ex comunista, ex Izquierda Unida ed ex sindaco di Cordova,  Rosa Aguilar, per recuperare consensi tra le fila della sinistra socialista. Ha nominato ministro alla Presidenza il basco Ramón Jáuregui, un tempo vice presidente della Comunità Autonoma di Euzkadi, anch’egli politico navigato, dotato di notevoli capacità di comunicazione e uomo moderato. Ha rimosso-promosso (destinandola al Consiglio di Stato) la vice presidente María Teresa Fernández de la Vega, dal profilo troppo radicale e per il momento solo rimosso il ministro degli Esteri, Ángel Moratinos, che non aveva operato male (soprattutto in Africa disincentivando i flussi migratori, portando a Barcellona la segreteria dell’Unione per il Mediterraneo, dando impulso all’Alleanza tra civiltà), ma inviso alla destra per le sue aperture al Venezuela di Chávez e al nuovo corso cubano di Raúl Castro. Ha infine soppresso, accorpandoli, due dicasteri (quello della casa e quello per l’eguaglianza), come misura di risparmio.

Ripeto, un’operazione di notevole abilità, che dovrà comunque fare i conti con la crisi economica e le capacità di ripresa del paese iberico. Più su questo fronte, che sui volti nuovi (e vecchi) dei ministri si giocheranno le ultime chances di Zapatero. Che non a caso non ha ancora sciolto il nodo della propria ricandidatura nelle elezioni del 2012. Da segnalare, infine, il mancato cambio di registro da parte del leader dell’opposizione, Mariano Rajoy, che nelle prime dichiarazioni successive al rimpasto se l’è cavata con la scontata battuta che gli spagnoli vogliono un cambio di governo e non nel governo. Un’analisi politica davvero raffinata. Che spiega come mai, nonostante Zapatero affondi, Rajoy non riesca neppure a galleggiare (nei sondaggi d’opinione, naturalmente).