Perché ci piace tanto il Pci, a noi che siamo nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta, e perché – se ci riflettiamo razionalmente a freddo – dobbiamo invece ammettere che non ne condividiamo più le ragioni, e che anzi se fossimo stati a Livorno quel giorno forse non avremmo aderito alla scissione?

Prima spiegazione: il Pci ci riporta alla nostra giovinezza, agli anni ruggenti in cui tutto, persino la rivoluzione in un Paese capitalista d’area occidentale, anzi situato in quell’area in posizione strategica (c’erano i blocchi), ci sembrava a portata di mano. Chi ci ha militato ha nostalgia delle fumose riunioni, della distribuzione domenicale dell’«Unità», delle relazioni introduttive basate su quell’incipit fatale: primo punto, compagni, la situazione internazionale; e poi veniva il resto. Chi allora – come me – stava nei cosiddetti gruppetti extraparlamentari, scimmiottava il Pci e sotto sotto lo invidiava per la compattezza e la serietà che lo caratterizzava. Gli altri, gli avversari, lo temevano.

Seconda spiegazione: il Pci è stato (questo è indubbio) un baluardo formidabile della democrazia repubblicana. E qui c’è il paradosso che nei giorni scorsi accennava in un’intervista sulla «Nuova» Luigi Berlinguer, un paradosso che ha un nome: Togliatti. Togliatti, che ai miei tempi noi extraparlamentari contestavamo nel nome di Mao («Sulle contraddizioni tra il compagno Togliatti e noi») fu l’artefice di una ambiziosissima e in larga misura riuscita operazione, che ha segnato positivamente (eccome l’ha segnata) la storia d’Italia. Ha preso un popolo largamente estraneo alla politica, spesso analfabeta, talvolta sovversivo per istinto primordiale, oppure indifferente alla politica che non capiva, e lo ha letteralmente «educato», secondo una pedagogia che ha aveva le sue scuole nelle sezioni e i suoi maestri nei primi dirigenti di base; e lo ha inserito nel gioco costituzionale, facendo una cosa che mai era avvenuta nella storia d’Italia precedente: portando questo popolo dentro e non contro le istituzioni.

Per farlo ha usato la sua dote principale, quella che faceva di lui «il migliore»: la doppiezza. Ha parlato molto di rivoluzione sapendo che non era possibile farla; e ha invece indirizzato la spinta al cambiamento che proveniva dal suo popolo verso il gradualismo democratico. Pensateci bene (e scusatemi la semplificazione): Togliatti ha fatto esattamente quello che diceva Turati nel 1920 nel suo discorso famoso alla Camera «Rifare l’Italia». È stato lui, Togliatti, il Turati del dopoguerra. E lo ha fatto navigando sapientemente, senza scissioni, tenendo a bada la sinistra di Secchia, restando stalinista sinché c’è stato Stalin e poi sempre fedele all’Urss, per quanto non pedissequamente, persino nei giorni tragici della rivolta ungherese.

Ma anche lavorando dentro la Costituzione (che aveva contribuito a scrivere) per affermarne le interpretazioni più avanzate. Una grande operazione di pedagogia popolare, forse assimilabile (ma solo forse) a quella che l’altro gigante del dopoguerra, Alcide De Gasperi, conduceva frattanto nei confronti dell’elettorato di destra e clericale della Dc. In certa misura il Pci ha rappresentato un pezzo di popolo più sovversivo temperandone gli eccessi, come la Dc ha riflesso la sua base reazionaria dandole uno sbocco democratico.

Terza spiegazione della nostalgia che sentiamo del Pci: il Pci (non solo il Pci, s’intende) ha dato l’impressione di essere – come diceva Enrico Berlinguer, «diverso». Diverso come? Onesto, serio, con un gruppo dirigente coerente alle sue idee, ordinato, obbediente alla linea. In ciò, in un Paese spesso di Pulcinella com’era ed è rimasta l’Italia, il Pci ha paradossalmente rappresentato un corpo estraneo. Ho scritto il giorno della morte di Enrico Berlinguer che lui era, come leader di quel partito, l’immagine stessa, persino antropologica, di quella diversità.

Credo che questo non venisse solo dalla disciplina comunista appresa sin dalle origini ma anche da una certa tradizione della fabbrica (e qui c’entra molto Gramsci) che fu sempre una componente della cultura comunista: essere seri come gli operai, di poche parole, determinati a fare il proprio lavoro meglio possibile, silenziosi ma tenaci. Era il modello ordinovista di Gramsci. Era l’italiano nuovo da costruire.

Se a Livorno il Pci non se ne fosse andato, obbedendo al diktat della Terza Internazionale, forse il partito socialista avrebbe trovato la dritta per capire e contrastare il fascismoDette le ragioni della nostalgia, potrei concludere con la frase ad effetto, rubata a Benedetto Croce rispetto ai cristiani: perché non possiamo non dirci comunisti. Senonché… Senonché se a Livorno il Pci non se ne fosse andato, obbedendo al diktat della Terza Internazionale (e Gramsci, lo ricordo, non era affatto favorevole), forse – chissà – il partito socialista avrebbe trovato la dritta per capire e poi per contrastare il fascismo. Del quale il vero leader del Pcd’I a Livorno (a proposito: si chiamava Pcd’I, cioè Partito comunista d’Italia sezione dell’Internazionale), cioè Amadeo Bordiga (a lungo cancellato dalla memoria del Pci) non aveva capito nulla, ma poco avevano capito anche gli altri, persino Gramsci sino a quel momento.

La frattura di Livorno, che magari consentì poi di resistere sul fronte interno della clandestinità, creò un solco destinato a riverberarsi ancora nelle polemiche dell’emigrazione antifascistaUna frattura – quella di Livorno – che magari consentì poi di resistere (solo per poco però, sino alla «retata anticomunista») sul fronte interno della clandestinità, ma che creò un solco destinato a riverberarsi ancora nelle polemiche dell’emigrazione antifascista.

Forse la scissione di Livorno non andrebbe celebrata, dunque? No, ma bisognerebbe farlo ragionando, da storici, e non seppellendoci in questo profluvio di bandiere con la falce e martello. Si vorrebbe, dopo 100 anni, più pacatezza, meno partigianeria, più ragionamento. E qualche po’ di analisi autocritica da parte di noi (mi ci metto anche io) «nostalgici».

E se Livorno non ci fosse stata, come sarebbe stato il resto della storia? Non si riscrive la storia coi se, lo sappiamo benissimo. Però il paradosso della storia repubblicana sta proprio, se ci pensate, in quella massa di voti comunisti non utilizzabili per governare il Paese, congelati, utilizzabili sono nei Comuni e nelle Regioni ma non nel governo centrale, perché la cosiddetta conventio ad excludendum (cioè il divieto di aprire al Pci insito nella guerra fredda: pena sennò un golpe americano) lo proibiva. Voti, intelligenze, energie, passioni lasciati tutti fuori dal governo. 

Forse senza Livorno non avremmo dovuto vedere l’accettazione e anzi la pedissequa esaltazione da parte del Pci dei carri armati a Budapest; e gli insulti a Nenni e a Antonio Giolitti (che con molti altri dirigenti lasciò il partito proprio per quella linea sbagliata); forse non avremmo avuto l’ostilità all’apertura a sinistra di Moro, e la sciagurata scissione del Psiup, partito più filomoscovita degli stessi comunisti; forse non ci sarebbe stata la dolorosa espulsione di quelli del manifesto; forse il riformismo avrebbe potuto avere più forza e l’Italia sarebbe cambiata prima. Forse avremmo fatto più riforme e in meno anni di quanto ce ne abbiamo messo (lo Statuto dei lavoratori era nel programma del Psi che entrò nel primo governo Moro nel 1963: lo si fece solo nel 1970).

Sventolare le bandiere rosse e rinfrancarsi al canto dell’«Internazionale» senza porsi questi interrogativi non ci servirà a molto. Sarebbe ora di storicizzarla, questa benedetta storia del comunismo italiano: con le sue pagine gloriose certo; ma anche coi suoi errori.

Tanto la nostra giovinezza, se non l’abbiamo conservata dentro di noi proprio facendoci i conti, con quegli errori, non ritornerà.