Il 27 gennaio 1967, attorno alle due del mattino, veniva trovato il corpo senza vita di Luigi Tenco nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo. Il giovane cantautore – avrebbe compiuto 29 anni un paio di mesi dopo – si suicidò in seguito all’eliminazione del suo brano nella XVII edizione del Festival della canzone italiana.

Ciao amore ciao, presentato in coppia con la francese Dalida, non era stato ammesso alla serata finale della competizione canora. In un biglietto di addio, Tenco aveva definito il suo un «atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e a una commissione che seleziona La rivoluzione», in riferimento ai brani interpretati da Orietta Berti e Gianni Pettenati. Non ci sono dubbi che si trattò di suicidio – confermato anche da un’autopsia realizzata nel 2005 dalla procura generale di Sanremo su pressioni della stampa e del fratello Valentino – per quanto le teorie cospirative riguardanti un fantomatico omicidio continuino a circolare. Non era quella, infatti, un’azione nuova per una generazione di cantautori influenzati dall’esistenzialismo francese: nel 1963 l’amico Gino Paoli, all’apice del successo, sopravvisse per miracolo dopo essersi sparato al cuore.

Luigi Tenco era nato a Cassine, nell’Alessandrino, il 21 marzo 1938 e aveva passato l’infanzia, orfano di padre, nel vicino paese di Ricaldone. A dieci anni seguì la madre a Genova dove si dedicò agli studi: la famiglia lo spinse a iscriversi all’università, ma dopo tre anni ben poco proficui tra ingegneria e scienze politiche si dedicò alla musica per cui aveva dimostrato passione fin da bambino. Le sue prime esperienze musicali le fece tra i quindici e i vent’anni a ritmo di jazz e rock, stringendo le prime importanti amicizie: nella Jelly Roll Boys Jazz Band conobbe Bruno Lauzi, mentre ne I Diavoli del Rock suonò insieme a Gino Paoli.

Nel 1959 si trasferì a Milano, prima ospite, insieme a Piero Ciampi, del musicista e compositore Gian Franco Reverberi, anch’egli genovese; poi alla Pensione del Corso, dove risiedevano Paoli, Lauzi e Sergio Endrigo. In sintesi, la prima generazione di cantautori italiani. Le amicizie segnarono la breve vita di Tenco: degne di menzione sono quelle con altri due genovesi, il poeta anarchico Riccardo Mannerini e Fabrizio De Andrè – che, dopo il suicidio, gli dedicò la toccante Preghiera in gennaio e fu uno dei pochi a presenziare al funerale.

Nello stesso anno, Tenco ottenne un primo contratto dalla Dischi Ricordi, gestita dal più innovativo e coraggioso produttore discografico italiano, Nanni Ricordi, dove lavorava già Reverberi: insieme a quest’ultimo ed Enzo Jannacci, con il nome de I Cavalieri, incise il suo primo disco. Nel 1961 uscì il primo 45 giri a suo nome – I miei giorni perduti – e l’anno successivo un LP che conteneva canzoni come Mi sono innamorato di te  e Cara maestra, a causa della quale fu censurato per due anni in Rai. Con meno riscontro di altri cantautori della sua generazione, come Giorgio Gaber, Umberto Bindi o i già citati Endrigo e Paoli, Tenco dovette cambiare etichetta discografica ben tre volte in meno di un decennio: il suo secondo 33 giri, che conteneva Vedrai, vedrai e Ho capito che ti amo, uscì per la Jolly nel 1965, mentre l’anno successivo firmò per la Rca, trasferendosi a Roma. Nell’ultimo anno della sua vita, il 1966, Tenco iniziò a ottenere un certo riconoscimento: uscì Lontano, lontano – che sarà poi il brano di apertura della Rassegna organizzata dal Club Tenco di Sanremo – e Un giorno dopo l’altro divenne la sigla dello sceneggiato Rai Il commissario Maigret. La partecipazione a Sanremo nel gennaio 1967 doveva essere il passo successivo per convertirlo in un cantautore di successo.

In modo molto personale, Tenco seppe introdurre nuove tematiche nella canzone italiana: il sentimento, l’amore vissuto nella sua quotidianità, la critica sociale. Il tutto con un linguaggio asciutto, senza ornamenti. A differenza di Paoli o Endrigo, per di più, riuscì a mantenere una stretta connessione con un mondo giovanile che era in profonda trasformazione in quegli anni, muovendosi con naturalezza su diversi piani, ma senza mai perdere coerenza (come testimoniano i suoi ricordi ne Il mio posto nel mondo, Rizzoli, 2007).

La morte di Tenco non fu solo una pagina triste della storia italiana. Significò una rottura senza precedenti nella tradizione musicale del nostro Paese. Al contrario della stampa di destra, ma anche di molti intellettuali di sinistra, poco interessati alla vicenda, vide bene Salvatore Quasimodo quando considerò che Tenco volle «colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio». La valenza simbolica del suo gesto si convertì in una sorta di trauma collettivo che permise, in fin dei conti, la creazione della canzone d’autore italiana, come ha osservato il sociologo Marco Santoro nel suo volume Effetto Tenco (il Mulino, 2010). Dopo il gennaio del 1967, era infatti divenuto impossibile coniugare i mondi della cosiddetta musica di consumo – rappresentata da Sanremo e dalle logiche discografiche – e quella che Umberto Eco chiamò la canzone «diversa», cioè il cantautorato e la musica folk impegnata (al tema ha dedicato un articolo in questa stessa rivista anche Franco Fabbri).

Dopo essere stato per lo più ignorato in vita, Tenco venne sacralizzato a posteriori, soprattutto da una certa cultura di sinistra che precedentemente si era dimostrata sorda e cieca a quel mondo. Solo dopo la sua morte, insomma, lo si riconobbe come una figura di svolta e fondativa di una nuova tradizione. Non a caso, nello stesso 1967 nacque a Venezia un primo Club Tenco e due anni dopo il giornalista Enrico de Angelis coniò l’etichetta di «canzone d’autore» – con un indiretto riferimento al cinema d’autore, allora già in voga – per definire un genere distinto dalla musica leggera, in cui l’importanza del testo e il suo legame con l’arte e la poesia erano elementi centrali. Fu allora che si iniziò a parlare di una «scuola genovese» per riferirsi alla prima leva cantautoriale rappresentata da Bindi, Paoli, Lauzi, Reverberi, Calabrese, De Andrè e, appunto, Tenco.

Nel 1972 venne poi fondato un secondo Club Tenco che, a differenza del precedente veneziano, avrebbe avuto vita ben più lunga: non era difatti un fans club, ma si intitolò a Tenco perché nacque a Sanremo. In risposta a un articolo apparso su «Oggi» nel 1972 intitolato Bravi, bravissimi: ma chi li vuole? e riferito a Guccini, Ciampi e Vecchioni, un floricoltore sanremese ed ex partigiano socialista, Amilcare Rambaldi, decise di fondare, insieme a giovani appassionati di canzone come de Angelis, Sergio Secondiano Sacchi e Mario De Luigi, un’associazione per offrire uno spazio ai giovani cantautori. Nel 1974, sempre nella città dei fiori, si realizzò così la prima Rassegna della canzone d’autore – conosciuta anche con il nome di Premio Tenco – che si convertì in un appuntamento fisso negli anni a seguire e in un luogo d’incontro della scena nazionale e internazionale. Osserva a questo proposito Jacopo Tomatis che il Tenco «permette la formazione di un canone della canzone d’autore, ne codifica le convenzioni e conferma che è sul piano dell’autenticità (e dell’autorialità) che la canzone italiana può trovare sanzione estetica» (Storia culturale della canzone italiana, il Saggiatore, 2019, p. 382)

È anche per questo che il suicidio di Tenco – «un atto d’accusa al sistema» nelle parole scritte ancora a caldo da Alfonso Gatto – va ben al di là della drammatica vicenda personale del giovane cantautore alessandrino o dei momenti più oscuri della storia del Festival di Sanremo. La sua morte rappresenta più che altro un momento di rottura nella storia della canzone italiana, una presa di coscienza da parte di un settore della società e una sorta di momento fondativo per la canzone d’autore del nostro Paese.