La vicenda #TrumpTwitterBan è stata dai più riconosciuta come un evento epocale. Una scelta, quella di Twitter, che costituisce un precedente importante e che potrebbe aver cambiato il nostro rapporto con i social media. Il mondo dell’opinione pubblica e degli esperti si è diviso a metà: da una parte i sostenitori del ban, dall’altra chi invece vede questa scelta come una censura nei confronti dell’uomo più potente del “mondo libero”.

Entrambi i fronti portano argomentazioni convinte (ma a volte poco convincenti) e si radicalizzano polarizzando uno scontro che, per assurdo, avviene in prevalenza proprio su quelle piattaforme oggetto del discorso. Forse però in questo caso la posizione più convincente è un socratico “non so”. Non per manifesta ignoranza (in tal caso non ci sarebbe nulla di male) ma perché la vicenda è grande, multiforme e declinabile in tanti modi, in diversi contesti e discipline, e può avere una moltitudine di implicazioni. Avere una posizione netta rischia quindi di semplificare una vicenda che, invece, necessita di approfondimento e di altre sedi di discussione.

Ovviamente, la prima cosa da fare è sgombrare il campo da equivoci: male ha fatto Trump a incitare i rivoltosi nel loro assalto al Campidoglio (anche senza contare i morti a seguito dell’attacco, che fanno di Trump un pericoloso incitatore e hanno avuto un peso decisivo nella decisione di Twitter). L’incitamento all’odio e alla violenza è uno dei motivi per cui un contenuto può essere bannato dalle piattaforme social, che rispondono unicamente ad un proprio regolamento. Regolamento che, col tempo, si è andato allineando ai princìpi giuridici in vigore nella maggior parte dei Paesi e sanciti da diverse convenzioni internazionali. E infatti, i contenuti che incitavano i rivoltosi sono stati, proprio in virtù di questi princìpi, prima nascosti e poi eliminati dalla piattaforma. Lo stesso è accaduto per i tweet che affermavano l’irregolarità delle elezioni (pubblicati quando le verifiche giudiziarie erano ancora in corso in alcuni Stati).

Eppure, questa volta Jack Dorsey e Mark Zuckerberg si sono spinti oltre. Dopo un blocco temporaneo dell’account @realdonaldtrump, durato 12 ore, si è deciso di procedere con l’eliminazione del profilo intero, impendendo l’accesso e – contemporaneamente – oscurandolo ai follower (i quali, andrebbe ricordato, non sono automaticamente identificabili come sostenitori).

Come si diceva, il ban ha spaccato in due il mondo degli osservatori. Eppure, entrambe le fazioni hanno le proprie ragioni, e si propongono con le loro argomentazioni di colmare un vuoto che è prima di tutto un vuoto normativo. Ecco perché il più grande contributo che ciascuno di noi può dare alla causa è porre (e porsi) le giuste domande, cercando di analizzare gli aspetti più complicati e controversi di questa vicenda e pretendere che le risposte vengano da altri (a cominciare dai legislatori).

Il primo rilievo fondamentale riguarda l’importanza che attribuiamo ai social media: se quindi, alla luce di questi fatti, riusciremo a far pace con l’idea che i social media sono un tema al centro dell’agenda politica. Al di fuori della eco chamber in cui è inserito chiunque si occupi di questi temi, infatti, spesso l’intreccio tra social media e politica è affrontato con sdegno o con disinteresse, e al progressivo trasferimento sui nuovi media della sfera pubblica hanno fatto seguito reazioni spesso benaltriste o addirittura ostili. In realtà, come ben sappiamo, i social media sono diventati – in Italia e non solo – una delle principali fonti di informazione politica, assumendo un ruolo centrale nella costruzione delle opinioni pubbliche e, soprattutto, di spazio di partecipazione dell’utente/cittadino.

Ovviamente, gli analisti che hanno misurato l’impatto dei social media nel dibattito pubblico si sono spesso soffermati su un aspetto: come possono questi ultimi giostrare tra questo ruolo (acquisito) e il fatto di essere fondamentalmente aziende private, quotate in borsa, che legittimamente perseguono interessi privati pur avendo un ruolo ormai indispensabile per la partecipazione e la comunicazione pubblica e politica? Molti sostenitori del blocco sostengono che anche i giornali rispondono a logiche commerciali, e che comunque Trump avrebbe potuto ricorrere ai media tradizionali (come radio, giornali e tv) per le proprie dichiarazioni e la propria comunicazione. Equiparando così due mondi che, invece, non sono affatto uguali. La differenza tra “vecchi” e “nuovi” media può essere osservata secondo due punti di vista.

Dal punto di vista sociale, la audience tra i due mondi mediali è profondamente diversa: i dati riportati dal sito statista.com ci dicono, relativamente agli Stati Uniti, che in dieci anni (dal 2011 al 2020) il tempo medio trascorso utilizzando i media tradizionali è passato da 7 ore e 33 minuti al giorno a poco più di 6 ore, mentre quello relativo ai media digitali è raddoppiato, passando da 3 ore e 34 minuti a 7 ore e 31 minuti al giorno.

Al di là dell’importanza di questo sorpasso, il tempo di utilizzo è importante anche perché varia molto a seconda dell’età: secondo una ricerca del Pew Research Center, nel 2020 negli Stati Uniti ogni utente utilizza i social network mediamente per quasi 2 ore al giorno, ossia 13 ore e 7 minuti a settimana; ma questo dato schizza a 15 ore e 25 minuti nei giovani tra i 18 e i 34 anni, mentre per gli over 65 tale quantità di tempo è inferiore alle 11 ore settimanali.

Per quanto riguarda invece il punto vista giuridico, al di là delle scelte di Trump, la differenza tra i due soggetti è sostanziale: radio, giornali e tv hanno  una “responsabilità editoriale”, il che implica l’obbligo di rispondere legalmente di ciò pubblicano (siano essi digitali o virtuali), inducendoli così a una selezione e un controllo dei contenuti che immettono nel dibattito pubblico tramite i loro canali. Questa responsabilità, dal punto di vista dell’interesse generale, è ovviamente un bene, e risponde alla necessità di mantenere alta la qualità dei contenuti, di non ledere la dignità di soggetti terzi, di informare attenendosi per quanto possibile ai fatti.

I social media, invece, non sono editori; quindi non hanno un obbligo di controllo preventivo sui contenuti, non sono sottoposti ad una regolamentazione specifica (come avviene invece per la stampa, nelle varie legislazioni nazionali), e soprattutto non rispondono legalmente di ciò che viene pubblicato sulle loro piattaforme. Probabilmente questo è uno dei punti più controversi della questione, e anche uno dei più difficili da dirimere: i social media devono molto del loro successo, grazie al quale hanno assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico, dovuto anche al fatto di non avere questa responsabilità, permettendo così a chiunque, potenzialmente, di esprimersi “ad armi pari” rispetto a realtà più strutturate, più longeve e con un maggior seguito.

Trump avrebbe quindi potuto rivolgersi ad altri media per parlare alla nazione, in questi anni e nelle ultime settimane; ma perché farlo, se per anni ha potuto legittimamente usare un canale diretto con il quale ha potuto raggiungere fino a 87 milioni di follower adottando un linguaggio che, lo ripetiamo, per tutto questo tempo non è mai stato oggetto di limitazioni da parte della suddetta piattaforma? Il tema delle tempistiche sembra quasi secondario, ma non lo è: non si può negare un certo tempismo, quantomeno “conveniente”, nel modo in cui Twitter ha colto al balzo una situazione drammatica e potenzialmente esplosiva per prendere decisioni che segnano un cambio di passo importante ma oggi in grado di essere condiviso dall’opinione pubblica. Eppure, la presa di posizione attuale non deve distoglierci dal fatto che, per anni, questo atteggiamento non è stato limitato. E non solo perché non fosse conveniente inimicarsi un leader politico con un seguito così vasto, ma proprio perché il tema, come detto, è ampio e complesso.

Ma il vero dilemma è: come colmare l’assenza di una regolamentazione in luoghi così centrali nella sfera pubblica? Il caso di Trump è forse troppo esplosivo per poter essere paradigmatico; eppure gli esempi di questo cortocircuito non mancano, basti pensare al caso del silenzio elettorale in Italia, regolamentato ovunque tranne che sui social media. Questo particolare vuoto normativo crea ciclicamente una situazione che alimenta le polemiche tra le due distinte fazioni, divise tra chi sceglie di rispettare ugualmente il silenzio e chi – in modo perfettamente legittimo da un punto di vista giuridico – decide di continuare la propria attività di propaganda elettorale anche il giorno prima o persino il giorno stesso del voto. Evidentemente, una scelta che non può e non deve essere affidata al buon senso personale, ma che dovrebbe essere innanzitutto riconosciuta dallo Stato come importante, e conseguentemente normata.

C’è poi un’altra questione che deve essere esaminata: come conciliare la legittima presenza di termini di servizio (per propria natura, a discrezione di un’azienda privata) con la citata rilevanza pubblica dei social media e il ruolo politico di alcuni utenti, per loro natura più rilevanti di altri? Il tema della rilevanza pubblica di alcuni profili era già stato discusso in America nel processo Knight First Amendment Institute v. Trump del 2017. In quel caso, oggetto del contendere era la possibilità per Trump di bloccare alcuni utenti considerati ostili (impedendo loro non solo di interagire con il suo profilo, ma anche soltanto di leggerne i contenuti); i giudici sentenziarono che il ban fosse incostituzionale perché violava la libertà di espressione dei “bannati”. Trump fece ricorso in appello, sostenendo che il ban fosse legittimo poiché proveniva dal suo profilo personale, e non da quello istituzionale riservato al presidente degli Stati Uniti (@POTUS); il ricorso però fu respinto: come evidenziato proprio su Twitter da Marco Bassini dell’università Bocconi, l’uso dell’account privato si configura come “una vera e propria state action, e il blocco di utenti una viewpoint discrimination”, di fatto operando una distinzione tra l’account di Trump e quello di un qualsiasi utente semplice, che legittimamente può bannare chiunque voglia senza limitazioni. In conseguenza di ciò, possiamo affermare che ci siano utenti che, in virtù del proprio ruolo pubblico, possano godere di deroghe in favore del diritto di cronaca e dell’informazione dei cittadini? Può darsi. Di certo, andrebbe disciplinato fino a che punto vale il diritto all’informazione, il diritto alla voice o all’exit – e magari, contestualmente, stabilire cosa è considerata attività pubblica sui social media e cosa no.

Infine, c’è un ultimo aspetto su cui vale la pena soffermarsi, forse troppo ampio per questa sede ma certamente un buon punto di partenza per chiunque avesse voglia di cimentarsi in un discorso pressoché evitato dai principali governi.

Il tema è questo: come si può in un sistema democratico affermare che la propria legittimità di decidere cosa è giusto e cosa no discenda dalla volontà popolare, se è proprio lo Stato a derogare ad un’azienda privata, con interessi privati, la decisione di cosa si può immettere nel dibattito pubblico, sfera indispensabile per la costruzione di una cittadinanza informata, partecipe e libera?

Per rispondere, serve prendere in considerazione il concetto di Stato, di opinione pubblica, di legittimità del diritto, di potere politico, di coraggio del legislatore e di lungimiranza. Concetti troppo profondi, ampi e complessi da poter rientrare in un tweet. Per fortuna.