La riduzione del numero dei parlamentari, dopo la promulgazione della relativa legge costituzionale, è divenuta definitiva, ancorché destinata a divenire operante con l’inizio della prossima legislatura. Questa riforma, apparentemente circoscritta a un punto particolare, in realtà si prospetta sin d’ora carica di forti potenzialità per il futuro funzionamento del nostro Parlamento e, più in generale, della stessa forma del nostro governo parlamentare. La ragione è che questa riforma rappresenta soltanto il primo passo di un percorso riformatore che è destinato necessariamente a svilupparsi già nel corso di questa legislatura e che verrà a investire, in linea diretta e immediata, sia il livello della legislazione ordinaria sia il livello dei regolamenti parlamentari e, in una prospettiva più lontana, lo stesso livello costituzionale. Il primo livello di intervento che oggi questa riforma viene a mettere in campo riguarda la legislazione elettorale che la riduzione dei parlamentari impone subito di riformare al fine di un adeguamento dei collegi elettorali al numero ridotto dei candidati da eleggere. Su questa prima riforma il governo è già al lavoro ai fini del rispetto del termine (60 giorni) imposto dalla legge (l. n. 51 del 2019) per questo adeguamento.

Ma al di là di questo primo, necessario passaggio il mondo della politica ha da tempo posto in campo anche la prospettiva di una riforma elettorale più ampia in grado di modificare l’intero impianto della legge Rosato, vigente dal dicembre 2017, che ha retto nel 2018 l’ultima tornata delle elezioni politiche. L’idea di questa riforma più ampia nasce da un accordo maturato tra le forze di maggioranza al momento della nascita del secondo governo Conte e diretto a sostituire l’attuale sistema elettorale (che prevede, come sappiamo, una distribuzione dei seggi da effettuarsi per circa 2/3 con metodo proporzionale e per circa 1/3 con metodo maggioritario) con un sistema proporzionale integrato dalla totale eliminazione dei collegi uninominali, dal divieto per le coalizioni, da una clausola di sbarramento al 5% e da un “diritto di tribuna” per le minoranze che raggiungano un certo risultato in un numero limitato di collegi. Questo disegno – ufficialmente motivato dall’esigenza di controbilanciare una riduzione dei parlamentari che necessariamente riduce lo spazio accessibile alle minoranze – ha trovato la sua espressione formale nel progetto di legge presentato alla Camera dall’onorevole Brescia (Atti Camera 2329), progetto per il momento bloccato per le controversie insorte sia tra maggioranza e le opposizioni sia all’interno della stessa maggioranza.

Questo a oggi è lo stato dei fatti il cui blocco andrebbe superato restituendo al sistema elettorale la sua funzione primaria e naturale di regola del gioco diretta non tanto a favorire una vittoria o una sconfitta di parte, quanto il buon funzionamento complessivo delle istituzioni rappresentative.

In altri termini: dopo la riduzione nel numero dei parlamentari quale sistema elettorale, nelle condizioni date dal nostro sistema politico, si presenta oggi più utile e conveniente per rafforzare le basi della nostra democrazia e migliorarne il funzionamento dei nostri apparati governanti?

Per dare risposta a questa domanda occorre, a mio avviso, muovere da alcune premesse.

La prima premessa riguarda l’evoluzione storica che i sistemi elettorali hanno avuto in Italia nell’arco della nostra esperienza repubblicana. Su questo piano vediamo come la nostra Repubblica abbia inizialmente goduto di una grande stabilità nella legislazione elettorale che per ben 45 anni ha utilizzato, sia per la Camera sia per il Senato, sistemi proporzionali pressoché allo stato puro che hanno potuto ben funzionare sia perché connessi a una Costituzione nata su di un impianto fortemente garantista, sia perché sorretti da un assetto di partiti stabili e bene organizzati.

A tale fase iniziale è però succeduta una fase di grande instabilità che si prolunga già da 27 anni e che ha visto la successione di quattro diversi sistemi elettorali, con la legge Mattarella nel 1993, con la legge Calderoli nel 2005, con la legge Renzi (mai applicata) nel 2015 e con la legge Rosato nel 2017. Questa seconda fase è stata segnata dalla ricerca, sinora fallita, tra principio maggioritario e principio proporzionale, nel tentativo di rafforzare la stabilità dei governi attraverso la trasformazione del nostro sistema politico da multipolare a bipolare (e, possibilmente, bipartitico). Tentativo che ha dato luogo, dal 1994 al 2012, all’alternarsi di due schieramenti, ma che alla fine è fallito per la formazione di maggioranze troppo divise al loro interno e per la nascita nel 2013 di un terzo polo “antisistema” che ha conseguito rapidamente un largo consenso. Da qui l’inversione di rotta avviata con la legge Rosato che, attraverso l’adozione di un sistema elettorale prevalentemente proporzionale, è venuta a riaprire la strada ai governi di coalizione come soluzione naturale e necessaria.

La seconda premessa riguarda il ruolo svolto dalla Corte costituzionale che, negli anni più recenti, è intervenuta in materia elettorale con due fondamentali pronunce (una del 2014 sulla legge Calderoli e una del 2017 sulla legge Renzi) che hanno posto alcuni punti fermi in tema di sistemi elettorali. Con queste pronunce la Corte – pur senza manifestare una preferenza tra sistemi proporzionali e sistemi maggioritari la cui scelta va riservata alla discrezionalità del legislatore – ha espresso le sue censure sia nei confronti di quei sistemi maggioritari che prevedono un premio di maggioranza o una vittoria al ballottaggio sganciati dal conseguimento di una soglia minima di consensi (in quanto sistemi in grado irragionevolmente di alterare il rapporto tra maggioranza parlamentare e maggioranza reale); sia nei confronti delle liste bloccate che escludono il potere di scelta dei candidati da parte degli elettori. Questi sono punti che integrano oggi il disegno costituzionale e che il legislatore elettorale è tenuto comunque a rispettare qualunque sia il sistema elettorale che intenda adottare.

La terza premessa è la più rilevante perché riguarda il carattere performante che il sistema elettorale è destinato ad assumere nei confronti del sistema politico fino a determinarne la struttura e gli sviluppi.

E qui torniamo alla domanda che sopra si poneva. Considerando questo carattere peculiare dei sistemi elettorali quale sistema può ritenersi oggi funzionalmente più idoneo a guidare una realtà politica quale quella di cui oggi disponiamo? In altri termini, alla luce di questa realtà, la linea che i sistemi elettorali del nostro Paese devono oggi privilegiare è quella della rappresentatività, che conduce verso la scelta proporzionale, o della governabilità, che conduce invece verso la scelta maggioritaria? Il primo obiettivo da perseguire attiene alla tutela delle minoranze o alla stabilità dei governi?

La risposta che sarei portato oggi a dare a questi interrogativi assume come obiettivo primario da perseguire la sostenibilità della nostra democrazia costretta a operare in condizioni sempre meno favorevoli e muove altresì dal riconoscimento che l’evoluzione pacifica degli ordinamenti democratici risulta normalmente legata alla gradualità del loro sviluppo: una gradualità che nella scelta del metodo elettorale dovrebbe innanzitutto evitare inversioni di marcia o rotture troppo brusche con il passato. Questo tanto più con riferimento a un assetto politico qual è il nostro caratterizzato da sempre da una conflittualità molto elevata (che, per il suo contenimento, orienta verso la scelta proporzionale), ma anche da una frammentazione molto rischiosa (che, sempre per il suo contenimento, spinge invece verso la scelta maggioritaria).

Queste considerazioni dovrebbero oggi orientare verso la conferma di un modello elettorale “misto”, ancorché in grado di equilibrare meglio di quanto non sia avvenuto con i modelli “misti” del passato la componente proporzionale (corretta da una clausola di sbarramento adeguata) con la componente maggioritaria (in grado di consentire, tra l’altro, all’elettore una valutazione diretta del candidato).

Questa linea, ove si volesse comunque privilegiare la scelta proporzionalistica auspicata dalla maggioranza, potrebbe d’altro canto condurre agevolmente verso la scelta di un sistema “proporzionale personalizzato” secondo il modello tedesco che consente all’elettore di esprimere un doppio voto disgiunto (in un collegio plurinominale) per la scelta della forza politica e (in un collegio uninominale) per la scelta del candidato, affidando al metodo proporzionale il calcolo finale sulla distribuzione dei seggi.

È una delle tante scelte possibili che, in ogni caso, una volta che si volesse comunque seguire la strada del metodo proporzionale, dovrebbe mirare – eventualmente anche attraverso riforme costituzionali e dei regolamenti parlamentari – non ad accrescere ma a ridurre lo spazio della frammentazione, vero demone del nostro sistema politico che ha impedito sinora alla nostra forma di governo parlamentare di ben funzionare.