In tanti lo hanno sottolineato: il Mezzogiorno rischia di ricevere un ennesimo, durissimo colpo da questa crisi, con possibili impatti sociali devastanti nell’area più fragile del Paese, dove si trovano il numero più alto di famiglie in povertà e un tessuto di imprese che rischia di soccombere per le conseguenze del lockdown. Il cocktail che può uscirne fuori è micidiale, al punto da mettere a rischio la stessa tenuta sociale in alcune aree urbane. Ma al contempo questa può essere la prima area del Paese a ripartire, non solo per i limitati contagi rispetto a Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia, ma perché forse questa crisi potrà avere anche risvolti positivi, cambiando il modo con cui si è soliti guardare al ruolo del pubblico, degli investimenti e della resilienza dei tessuti sociali ed economici.

Proprio mentre si entra nel cuore della discussione sul Recovery Plan che il governo dovrà presentare a Bruxelles per spiegare le scelte prioritarie per far ripartire il Paese – e candidarsi ai finanziamenti previsti per far fronte alla tempesta sanitaria ed economica del Covid-19 –, occorre tornare a guardare con attenzione al «Piano per il Sud» presentato a febbraio. Merito del ministro Provenzano se non si tratta del solito elenco di opere e di promesse, ma di un primo tentativo di proporre una visione del futuro che coinvolga una parte della penisola strategica nel Mediterraneo, per spingere politiche innovative e intervenire su antichi problemi e ritardi. Alcune delle critiche che la proposta aveva ricevuto al momento della sua presentazione oggi fanno sorridere – ad esempio di essere un retaggio di teorie dello sviluppo anni Cinquanta e di dirigismo statale populista (si veda S. Brusco, Piano, Sud, «Il Foglio», 3.3.2020) – nel momento in cui persino il «Financial Times» chiede riforme radicali, con un ruolo più forte dei governi nell’economia e la redistribuzione della ricchezza. Su altre critiche, che mettevano in luce le difficoltà di trasformare quelle idee in azioni, vale invece la pena tornare.

Il Piano per il Sud contiene un’analisi dei problemi e un progetto per orientare le politiche che risulta quanto mai utile ora che si è chiusa la prima fase dell’emergenza e servono idee chiare, oltre alla capacità di leggere dentro le ferite lasciate da settimane di stop delle attività. Come avvenuto dopo la crisi del 2008, il rischio è che tornino in campo le solite idee di sviluppo – fatte di deregulation e grandi opere – e prenda forza la spinta di chi chiede di attingere le risorse dai fondi strutturali europei e da quelli del Green Deal per rilanciare il Paese dopo il Coronavirus. Servirà una visione del futuro da contrapporre a queste idee; nel Piano troviamo i titoli e gli obiettivi giusti, l’analisi delle crisi che si sono aggravate in questi anni e la giusta scelta di puntare a ridurre i divari tra i cittadini e i territori. La riprogrammazione e l’aumento degli investimenti per il diritto allo studio e per ridurre la piaga dell’abbandono scolastico sono un segnale importante, con priorità verso gli asili nido, il patrimonio edilizio pubblico, la sanità.

Una prima discontinuità si è vista nella Legge di Bilancio 2020, con risorse per il finanziamento di investimenti sociali da parte dei Comuni. Importante è anche l’attenzione proposta in termini di risorse per l’innovazione del sistema delle imprese, attraverso crediti di imposta per la ricerca e lo sviluppo. Dove invece occorre ancora lavorare è rispetto a come concretizzare quelle strategie, perché sta qui il punto debole di tutti questi anni di lavoro per il Sud. Sarebbe un errore nasconderlo, veniamo da anni di risultati fallimentari del complesso delle politiche per il Sud costruite intorno ai fondi strutturali gestiti dalle Regioni e attraverso i Piani operativi nazionali.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 4/20, pp. 595-603. Il fascicolo è acquistabile qui]