Non mi capacito di come mai un sacco di persone che stimo stiano conducendo una vibrantissima campagna per il “no” al referendum costituzionale del 20-21 settembre davvero degna di altra causa. Quando nel gennaio scorso fu raggiunto il numero minimo di firme per sottoporre a referendum popolare una decisione varata dal Parlamento alla virtuale unanimità, considerai davvero inopportuna questa sfida trasversale voluta prima di tutto dai senatori di Forza Italia, assecondata a titolo personale da alcuni altri di vari altri gruppi (inclusi 4 del Pd), ma resa possibile solo dall’aggiungersi del tutto strumentale (gli scopi erano diversi, notoriamente), all’ultimo momento, di un plotoncino di senatori della Lega. Vi è infatti una grandissima differenza fra questo e i precedenti referendum costituzionali: in tutte le precedenti occasioni (2001, 2006, 2016) ci si contrapponeva a scelte compiuta a più o meno stretta maggioranza. Qui ci si contrappone all’intero Parlamento.

Pur convintamente favorevole alla riduzione, non avrei mai immaginato di impegnarmi a favore di una revisione di portata limitata, puntuale come più puntuale non si può, il cui principale difetto stava, ai miei occhi, proprio in questa sua caratteristica, considerata tuttavia dai più, soprattutto fra i miei colleghi costituzionalisti (remember 2016?), un pregio: infatti, la scelta a favore di revisioni puntuali e distinte (sulle quali eventualmente chiedere il voto altrettanto distinto degli elettori) aveva necessariamente imposto di far salvo l’attuale bicameralismo con tutti i suoi difetti, dal momento che se si fosse inteso intervenire, anche in piccola misura, su competenze e prerogative delle due Camere (oltre che sul numero), sarebbe stato inevitabile un intervento assai complesso e costituito di oggetti inevitabilmente plurimi e coordinati.

Così stando le cose, immaginavo (sbagliando) che – stante la solenne (e in ogni caso coraggiosa) scelta di tutte le forze politiche (eccezion fatta per +Europa), sia pure con qualche marginale dissenso – il referendum sarebbe stato una specie di inutile plebiscito (appunto: inopportunamente e aggiungo, dannosamente, convocato da un’infima minoranza), ben più di quello del 2001 quando non ci fu alcuna campagna elettorale perché l’opposizione, divenuta maggioranza, non aveva essa stessa interesse ad alimentare la contrapposizione con una riforma, quella sì organica, che andava comunque – anche se a suo dire non abbastanza – nella direzione in senso lato federalista da essa sbandierata. Insomma consideravo la scelta, in un primo tempo fissata per il 29 marzo 2020, una sorta di atto dovuto, per il quale non sarebbe stato il caso di scaldarsi: tanto più che nel merito esso rispondeva (coi limiti che ho detto, inevitabili data la scelta della “puntualità”) a proposte di riduzione, in quella o più spesso in altra forma, avanzate da decenni da tutte le forze politiche, e anche avallate da tutti gli studiosi a mia memoria senza eccezione. È ben vero che in precedenza (con qualche eccezione, un lontanissimo progetto Bianco del 1975; un più recente progetto Zanda e Finocchiaro del 2008: il M5S, si noti, non era nato) la riduzione si era inserita in ripensamenti complessivi del bicameralismo: ma ciò per la semplice ragione che l’ossessione delle riforme puntuali non si era ancora affermata, e quasi tutte le proposte si pregiavano di caratterizzarsi per un approccio necessariamente organico.

Mi sbagliavo, e di grosso. Sottovalutavo l’incoercibile suscettibilità dell’istituto referendario a farsi strumentalizzare dirottandone con abilità significato e valenza dal vero quesito ad altro; sottovalutavo la formidabile capacità di strumentalizzazione e manipolazione del referendum (anche quello che a me era parso il più banale, scontato e inutile) di cui sono capaci politici e intellettuali con l’aiuto della rete e con l’avallo di un’informazione che si finge critica ma che in realtà insegue qualsiasi nuovo trend (v. la “storica” efficacissima trasformazione del referendum del 2016 in un referendum su Renzi, v. la trasformazione del referendum sulla riduzione dei parlamentari in referendum alternativamente sul M5S o sul Pd e le sue strategie, o sul governo Conte II); non di tutti, ma di molti di questi politici, sottovalutavo poi l’ineffabile capacità di smentire sé stessi a distanza anche di pochi mesi se non anni, perfino su questioni per nulla complesse.

Mi riferisco ai diversi parlamentari che hanno solennemente votato "sì" nella sede istituzionale e che stanno facendo campagna per il "no", come a quelli che scoprono i difetti della riduzione curiosamente definita “lineare”, come fosse un’offesa, dopo averla essi stessi proposta (identica!) nel recente passato e impegnativamente sostenuta con atti e parole in Parlamento (mi riferisco all’AS 1178 della XVI legislatura). Sottovalutavo la capacità di alcuni giuristi (ma anche politologi) di elaborare argomenti speciosi e inventare alambiccate inferenze per alimentare lo scetticismo nei confronti di qualsiasi innovazione, per modesta che sia, derivandone conseguenze sempre ad alto rischio (per la democrazia naturalmente, le istituzioni, la rappresentanza e quant’altro) in un’orgia di costituzionalismo ansiogeno tipico della mentalità risk averse propria di quel Paese, il più conservatore al mondo, che è l’Italia.

Il tutto pur sempre chiedendo nel contempo cambiamenti e riforme, naturalmente altre e diverse rispetto a quelle concretamente fattibili: quasi che possano esistere in natura modificazioni ordinamentali perfettamente compiute in sé e non bisognose di leali successive attuazioni, quasi possano esserci innovazioni conosciute in ogni possibile effetto e conseguenza anche di dettaglio. Sottovalutavo la capacità di nascondere dietro argomenti apparentemente sofisticatissimi e suggestivi un’unica nuda e cruda verità: l’opposizione sic et sempliciter a qualsiasi ridimensionamento della classe parlamentare (è questo ciò che si nasconde dietro le geremiadi su presunte conseguenze drammatiche per la rappresentatività territoriale e politica delle due Camere).

Sottovalutavo, infine, la capacità di diffondersi, praticamente senza contraddittorio, di veri e propri paradossi la cui totale incoerenza dovrebbe apparire evidente. Penso in particolare al paradosso di fare una campagna a presunta difesa del ruolo del Parlamento e della democrazia rappresentativa (in nome della lotta al populismo), attraverso la propaganda e l’eventuale affermazione di un “no” che costituirebbe rigetto clamoroso di una solenne decisione proprio del Parlamento, un “no” guarda caso imposto per via referendaria, cioè attraverso lo strumento che più si presta ad usi e manipolazioni demogogiche e populiste! Una pretesa di salvare il Parlamento da sé stesso che la dice lunga e che a me pare sottovaluti l’intrinseco potenziale di delegittimazione che essa implica (dato il carattere unanime della scelta dal Parlamento compiuta undici mesi fa). Per non dir nulla degli argomenti usati, molti dei quali a loro volta clamorosamente demogogici e populisti.

Occorre invece stare all’oggetto che è solo ed esclusivamente, rebus sic stantibus, il tentativo di rimettere in sintonia il nostro pletoricissimo Parlamento (il più pletorico fra tutti, si può ben dire) da un lato con la prassi del parlamentarismo contemporaneo nel mondo, dall’altro (e conta di più) con il prevalente sentire di una stragrande maggioranza dei cittadini ai quali era sacrosanto che finalmente le forze politiche, tutte, indipendentemente da chi ebbe l’iniziativa, dessero un segnale coraggioso, da lungo tempo dovuto, di sobrietà: a partire dal numero dei componenti, e a prescindere da qualsiasi altra ulteriore innovazione integrativa. Al di là di un utile snellimento (rileggere sul punto Sartori), al di là delle opportunità che la riduzione apre (nuovi regolamenti parlamentari comunque necessari), al di là della ricaduta in termini di maggior prestigio del singolo parlamentare, al di là della potenziale minore frammentazione politica con positive ricadute sulla forma di governo, al di là dei risparmi probabili (che non sono affatto così modesti come tutti dicono sull’onda di calcoli approssimativi e miopi), questo è ciò che più di ogni altra cosa rende la riduzione opportuna: provare a costruire, attraverso un miglior rapporto con la società, un Parlamento più autorevole.

Nell’attesa di riforme venture, quando se ne creeranno le condizioni culturali e politiche (che attualmente non sono all’orizzonte, e che il “no” allontanarebbe vieppiù), ci teniamo i 945 o consentiamo col Parlamento che ha giudicato, con coraggio, di autoridursi a 600?