Le riforme costituzionali si giudicano innanzitutto nel merito. E nel merito ci sono riforme che migliorano l’esistente, altre che lo peggiorano, altre infine (curiosa specie) che appaiono come sospese: possono andare in una direzione o in un’altra a seconda del contesto. Questa, diciamocelo, appartiene al terzo tipo. Non mette a rischio la democrazia, come alcuni credono anche in buona fede. Ma non è nemmeno quella svolta di cui le istituzioni italiane hanno bisogno, per la quale i riformatori e i riformisti si battono da anni. Può essere, magari, un primo passo, l’avvio di un processo di cambiamento al quale le forze progressiste dovrebbero partecipare, per cercare di guidarlo. O può rimanere isolata, senza conseguenze, un taglio lineare alla rappresentanza che soddisfi almeno gli appetiti populisti (nella speranza, questo sì, che basti a placarli).

Ma a prescindere dal contesto, di per sé il taglio di un terzo di deputati e senatori è un intervento di «manutenzione» delle nostre istituzioni che – visto in prospettiva storica –qualche ragione ce l’ha. Ha senso ridurre i parlamentari perché, dal 1945 a oggi, noi abbiamo considerevolmente ampliato il numero di eletti: verso il basso (consiglieri regionali) e verso l’alto (parlamentari europei). Nelle intenzioni dei costituenti, la dimensione relativamente ampia di Camera e Senato, come anche il bicameralismo paritario, dovevano servire a garantire la rappresentanza democratica e a evitare i rischi di accentramento del potere. Da allora però l’assetto istituzionale dell’Italia è già profondamente mutato, in direzione proprio di una maggiore rappresentanza democratica e di un più ampio bilanciamento dei poteri. Oggigiorno le nostre sono democrazie su più livelli, cui concorrono diversi corpi legislativi: regolarmente eleggiamo i nostri rappresentanti non solo per il Parlamento nazionale, ma per il Consiglio regionale, per l’Europarlamento, oltre che per i comuni. E al tradizionale bilanciamento di poteri fra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario si è aggiunto quello fra i diversi ordini del Legislativo (e per la verità anche dell’Esecutivo, dalla Commissione europea alle giunte regionali, e perfino del Giudiziario, si pensi ai Tar o alla Corte di giustizia europea).

Detto questo, bisogna anche ammettere che l’attuale riforma costituzionale è poca cosa, perché non affronta i due problemi fondamentali del nostro ordinamento: il bicameralismo paritario e la più recente competenza concorrente fra Stato e Regioni. Sono, questi, due impedimenti oggettivi, che peraltro rendendo farraginosa la funzione legislativa ne favoriscono anche il discredito, a favore di quella esecutiva, come infatti è avvenuto (e che siano «oggettivi» non vuol dire che non vi possano essere situazioni «soggettive», cioè eccezionali e dovute a una forte volontà politica, in cui questo rallentamento si può superare). La riforma Renzi-Boschi affrontava entrambi questi nodi, anche se in modo imperfetto e un po’ confuso, ed è per questo motivo che già allora, pur essendo critico verso Renzi, sostenni il “sì” – perché le riforme costituzionali si giudicano innanzitutto nel merito. Tornando all’oggi, è pur vero che (in teoria) l’attuale taglio potrà comunque migliorare la funzionalità del Parlamento, rafforzandola: perché tenderà a favorire un’utile modifica dei regolamenti parlamentari, a indebolire il potere di interdizione dei piccoli partiti, a migliorare il livello qualitativo dei parlamentari dato che la selezione sarà più dura. Questi risultati, certo, non sono affatto scontati. I benefici sono solo tendenziali, al momento, diventeranno concreti se le auspicate riforme correlate (dalla modifica dei regolamenti parlamentari e della base di elezione del Senato a una nuova legge elettorale) si realizzeranno. Ma bisogna riconoscere che c’è un processo in atto, benché faticoso, che va in questa direzione. Mentre, se vincerà il “no”, una bocciatura da parte degli elettori di una modifica costituzionale pur così limitata sarebbe forse la pietra tombale di ogni ulteriore possibilità di riforma.

Queste in sintesi le ragioni per cui, nel merito, preferisco il “sì”. C’è però in campo un altro insieme di motivi, quelli per cui non si dovrebbe giudicare una riforma costituzionale. Le implicazioni per la lotta politica, qui e ora. Già Renzi commise l’errore di politicizzare il voto, nel 2016, trasformandolo in un referendum su se stesso e sul suo Governo. Ed è per questo che perse, non tanto per il merito del quesito. Oggi ho l’impressione che molti, a parti rovesciare, stiano commettendo lo stesso errore: politicizzare il quesito. Tanti sperano votando “no” di dare una spallata al Governo e a questa maggioranza, o perlomeno al Partito democratico. Obiettivi tutti legittimi, beninteso, ma cui la nostra Costituzione non può essere subordinata. Avvalora questa impressione il fatto che, fra i «riformisti» che votano “no”, molti sostennero con disinvoltura il referendum di Renzi, il quale condusse una campagna elettorale all’insegna del «Tagliamo le poltrone» esattamente identica a quella dei 5 Stelle; a conferma che il merito del quesito non interessa poi tanto.

Proviamo però a muoverci anche su questo terreno: perché come si diceva il contesto è importante per questa riforma e, in fondo, il contesto dipende da come evolverà il quadro politico. Tanti cittadini, ovviamente, votano “no” in modo sincero e coerente (spesso lo fecero anche nel 2016): esprimono un’avversione al populismo anti-casta che condivido e, in termini generali, i loro timori sulla tenuta democratica dell’Italia vanno presi molto sul serio (come non mi stanco di ripetere nei miei studi). A mia volta, però, nutro il timore che una vittoria del “no”, mettendo in crisi l’attuale maggioranza e aprendo quindi la strada al duo Salvini-Meloni, ma anche screditando ulteriormente un Parlamento che questa riforma l’ha votata con larghissimo margine, finirebbe per favorire la deriva antidemocratica del Paese. Temo anche una vittoria del “sì” che fosse rivendicata solo dai 5 stelle e da Fratelli d’Italia, gonfiandone le vele, con l’attuale maggioranza in frantumi e le forze di sinistra tutte sconfitte: allora sì che la riforma prenderebbe la strada sbagliata.

Ma poi, la verità bisogna dirla fino in fondo: la deriva antidemocratica ha motivi sociali ed economici, non tanto di ingegneria istituzionale. È contrastando il declino e le disuguaglianze che si debellano le tentazioni autoritarie. Per queste ragioni io penso che il modo migliore per difendere la nostra democrazia sia sostenere quelle forze che, mentre appoggiano il “sì” al referendum, si battono per le indispensabili riforme di contesto. E si battono contemporaneamente per un’Europa più solidale, per un’Italia più giusta e quindi più moderna. Si battono cioè affinché la politica democratica e progressista, puntellata dai cittadini, sappia farsi motore e guida del cambiamento. Altre strade francamente non ne vedo.