E ora, come sempre, si scateneranno interpretazioni e dietrologie. L’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha appena finito di parlare al Meeting di Rimini e già ci si chiede a chi ha voluto mandare un messaggio e quale. Ha parlato pro-governo o contro il governo? Ha delineato il programma del suo futuro esecutivo, o di un esecutivo ideale, o ha aperto la sua personale campagna per la successione a Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica? E perché, dopo tanto silenzio, al Meeting di Rimini, luogo deputato della rentrée estiva della politica? Ha voluto dettare la linea all’Europa, ora che non può più dettare la politica monetaria?

Per questo gioco di “tirarlo per la giacca”, e attribuirgli ogni intenzione nascosta e il suo contrario, Draghi ha sempre mostrato fastidio e cercato di sottrarvisi, ma la cosa può riuscirgli più difficile ora che non ha più un ruolo istituzionale a offrirgli il necessario distanziamento, per usare una parola purtroppo di uso corrente.

Eppure il suo discorso di Rimini è molto semplice, una chiamata all’impegno etico “che trova vigore nelle difficoltà”. Si ricollega al suo unico altro intervento pubblico da quando ha lasciato la Bce, un articolo per il “Financial Times” di fine marzo, quando già intravedeva nella pandemia una tragedia di proporzioni bibliche e sosteneva la necessità di rispondere in misura corrispondente; ribadisce alcuni elementi fondamentali che lo ispirano da sempre (l’adesione all’Europa, il multilateralismo); rivela il modo di procedere cui si affida da anni: individuare un obiettivo, per quanto non immediato, e i passi necessari per arrivarci, “gradualmente e prevedibilmente”, per superare “l’incertezza paralizzante” generata dalla pandemia. La vera ripresa si avrà “solo con il dissolversi dell’incertezza”.

Nessuno potrà accusare Draghi di “veduta corta”, per usare l’espressione di Tommaso Padoa-Schioppa, riferita a tanti policy-makers. Quando dice che il futuro è nelle riforme anche profonde dell’esistente, ricorda anche che “bisogna pensarci subito”. E non è un caso che al centro del discorso di Draghi ci siano i giovani, ai quali bisogna dare più che sussidi che servono a sopravvivere e a ripartire. “Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di disuguaglianza” è la frase chiave di tutto l’intervento, subito dopo aver puntato il dito contro anni di “egoismo” (qui Draghi è più diretto, come suo costume, di Padoa-Schioppa) in favore di obiettivi a immediato ritorno politico. L’istruzione e l’investimento nei giovani sono la strada maestra dell’ex banchiere centrale. I casi di successo nel mondo sono le nazioni che hanno messo al centro l’educazione dei giovani, preparandoli a gestire cambiamento e incertezza nei loro percorsi di vita.

Se suona come un Draghi politico, non è perché si prepari a “scendere in campo” (altra espressione che detesta), ma perché Draghi lo è sempre stato, o quanto meno è da decenni un tecnico (anche nel discorso di Rimini ha rivendicato il valore della competenza) con un’acuta sensibilità politica, dotato di “flessibilità e pragmatismo”. Nell’occasione ha precisato di non voler fare una lezione di politica economica, ma anche su questo terreno alcuni messaggi (se proprio vogliamo rifarci a questo cliché) li ha dati, molto chiari. Nel suo articolo sul "FT", aveva spiegato che la risposta inevitabile alla crisi era un ingente aumento del debito pubblico, una posizione che certo non rinnega, ma per evitare che lo si schieri nelle file di chi pensa che basti far debito per risolvere tutti i problemi, puntualizza che c’è debito buono e debito cattivo. E quello buono, cioè, alla fine, l’unico sostenibile, specialmente per chi come l’Italia ne ha tanto, è quello utilizzato a fini produttivi, quindi nel capitale umano, nelle infrastrutture, nella ricerca. Citerà poi la protezione dell’ambiente, la digitalizzazione e soprattutto, appunto, l’istruzione.

Infine nel discorso di Rimini c’è la veduta lunga sul progetto europeo, non senza rivendicare che l’azione dei governi “poggia su un terreno reso solido dalla politica monetaria”: dal mercato unico è discesa l’introduzione dell’euro, da questa la disciplina dei bilanci nazionali e l’unione bancaria. Nel futuro c’è la creazione di un bilancio europeo e Draghi ne vede un primo riconoscimento nel progetto Next Generation EU, insieme all’inizio di emissioni di debito comune. All’orizzonte, è un disegno che porterà a un ministero del Tesoro comunitario. L’ex banchiere centrale è realista: vede che, anche nel pieno della pandemia, la solidarietà europea, che avrebbe dovuto essere spontanea, è stata concessa dagli uni solo dopo duri negoziati e che gli altri hanno faticato a riconoscere che la responsabilità deve andare di pari passo e dare legittimità alla solidarietà. Ma resta convinto – quante volte lo ha ripetuto agli scettici su entrambe le sponde dell’Atlantico – che troppo capitale politico sia stato investito nel progetto europeo per lasciarlo morire. Anche se a un certo punto c’è voluto tutto il suo carisma e la sua capacità di comunicazione per salvarlo per i capelli. Quel tempo è passato: ora Draghi pensa al futuro dell’Italia e dell’Europa. E ai giovani. Quale sarà il suo ruolo, a Rimini non l’ha detto. Ma nelle prossime ore, giorni e settimane, non mancheranno certo gli esegeti che ce lo spiegheranno.