Nessuno di noi – virologi, medici, scienziati, giornalisti, politici, psicoanalisti, gente comune – ha capito davvero e profondamente questo virus. Però tutti ne parliamo. Lo facciamo perché ne abbiamo bisogno, proprio perché il soggetto di cui ci occupiamo è in gran parte ignoto. Laddove c’è una distanza conoscitiva serve uno sguardo attento ai dettagli e ai particolari per provare a capirci qualcosa.

Mi considero un buon osservatore e ho attraversato molte fasi di questa vicenda. Dal punto di vista terapeutico, sociale, economico, familiare e, last but not least, sanitario. Ho quindi un’esperienza, incarnata a tutti gli effetti, da cui ho potuto apprendere, e sento di poter intervenire. I medici dicono che non sanno ancora “colpire” il virus, ma hanno capito come proteggere e curare gli organi che dalla malattia sono aggrediti. Alla stessa stregua gli “psico”, di qualunque formazione siano, dovrebbero essere in grado di aiutare chi dal virus ha subito conseguenze e attacchi, a ogni livello questo sia accaduto, accada o accadrà. La psicoanalisi non rimuove dal corpo una malattia organica, né la rende più lieve, ma evita che il soggetto sia schiacciato dalla realtà e allo stesso tempo mantiene in vita una storia soggettiva. Quale può essere, quindi, il nostro contributo alla drammatica vicenda della pandemia? In primo luogo l’aiuto a comprendere l’impatto emotivo sulle persone, poi il riconoscimento e la cura delle conseguenze di tale impatto.

Ma partiamo dall’inizio. Fin dai primi momenti, da quando il virus è diventato una minaccia reale, mi sono chiesto con forza come avrebbero reagito quei pazienti con problematiche che riguardano la sfera ipocondriaca. Con uno abbiamo riflettuto su questo tema: da mesi era immerso nel timore di avere una patologia specifica, che potesse capitargli qualcosa di terribile, di che cosa potessero significare dei sintomi, dei dolori che provava. Improvvisamente dice: "Ma sa, dottore, che io non ho paura di questo virus?". E riflettendoci, aggiunge: "Noi siamo in allarme ogni giorno, per cui forse siamo più abituati di tutti gli altri a gestire i nostri allarmi". Si dice che il "sistema" sia andato in crisi perché non era preparato alla gestione di un’emergenza. Al contrario, un ipocondriaco è ben allenato a gestire questo tipo di situazione. E guarda gli altri che si agitano come fossero degli alieni.

Confidavo anche sul fatto che, con le dovute eccezioni, gli altri pazienti avrebbero affrontato con “competenza” il momento che stavamo vivendo, ed è ciò che è accaduto, almeno tra quelli che incontravo. Questo è apparso nei temi affrontati, negli stati d’animo, nelle emozioni mostrate, nei comportamenti raccontati. Pur tra oscillazioni sul continuum minimizzazione-apprensione. Insomma, se la sono cavata meglio della maggior parte dei nostri concittadini. Evidentemente il lavoro psicologico in atto, il poter contare su uno spazio e un interlocutore sono stati fondamentali. Come confermato da una mia simpatica e brillante paziente, secondo cui: “Noi psicolabili, possiamo resistere. E poi sa, in questo momento, siamo quelli con più strumenti, in fondo, perché ci alleniamo da molto tempo a fare i conti con noi stessi”.

I più attrezzati sono sembrate le persone abituate al controllo, gli ossessivi, gli agorafobici, i ritirati. Poi è arrivato il lockdown. Non abbiamo ancora a disposizione ricerche in grado di fornirci dati precisi ed esaurienti. Di conseguenza dobbiamo accontentarci delle nostre valutazioni soggettive e del confronto con i colleghi. Abbiamo osservato un effetto quasi benefico nei primi tempi. Certamente è stato molto diverso vivere questo periodo in abitazioni sufficientemente spaziose, aperte all’esterno con balconi e giardini, nella convivenza con poche persone e in armonia, piuttosto che in appartamenti piccoli, affollati, con tensioni relazionali, senza ambienti dedicati per lavorare, giocare o leggere. In ogni caso la maggior parte ha sperato che il periodo sarebbe stato breve, qualche settimana al massimo, protetti e sicuri. Così molte persone hanno sperimentato e raccontano uno stato di benessere, nel quale l’improvviso rallentamento dei ritmi vitali ha prodotto un effetto paragonabile a quello di un ashram o di un ritiro di meditazione. Alcuni ancora pensano con nostalgia a quei giorni.

Poi, da un lato i tempi si sono dilatati a dismisura, dall’altro la vicenda ha assunto aspetti sempre più tragici, tra morti, malattie, timori sul contagio, paure economiche, lontananze e privazioni. L’isolamento quasi totale nel lockdown, e tuttora in atto nella fase 2 e 3, ha avuto ripercussioni ancora difficili da decifrare. Una lettura può arrivare dalle conseguenze psicologiche. È stato, ed è, un trauma violentissimo che ha prodotto varie reazioni altrettanto traumatiche. Solo così è possibile comprendere i fenomeni di rimozione, quelli negazionisti, le posizioni complottiste, le reazioni “politiche” scomposte e incoerenti. Con il diniego, il totale rifiuto di quello che sta accadendo, in particolare, si cerca di trovare una spiegazione e una lettura più tollerabile per eventi inaccettabili. È un meccanismo di difesa che può funzionare efficacemente in tempi brevi, ma non regge alla distanza. Ne consegue una paralisi drammatica del pensiero che fa oscillare le emozioni tra la depressione per ciò che è accaduto e l’ansia per ciò che accadrà.

Inoltre noi esseri umani siamo programmati per stare in relazione gli uni con gli altri, cosa possibile anche grazie ai contatti fisici (strette di mano, baci, abbracci). L’assenza produce una deprivazione, in mancanza ci si ammaliamo. Ne soffrono, ne soffriranno, soprattutto i bambini, i giovani che già vivono uno stato di solitudine, incertezza e pessimismo per il futuro, accentuando un gap tra le generazioni già in essere. Poi tutti gli operatori sanitari passati attraverso lo stress dell’emergenza sanitaria, la paura per sé stessi e per i familiari, le lontananze forzate. Infine tutti quelli colpiti dalla crisi economica e sociale. Persone che forse mai avrebbero pensato di aver bisogno di un aiuto sul versante psichico. Tanto che la Società italiana di psichiatria prevede 300.000 nuovi accessi ai Servizi psichiatrici territoriali, impatto paragonabile a quello del virus sui reparti di rianimazione degli ospedali. Basti pensare che in Italia solo il 3,6% della spesa per il Ssn è destinata alla salute mentale (contro almeno il doppio o il triplo degli altri Paesi europei). La task force governativa ha proposto un aumento dell’investimento del 35%. Indispensabile.

Sarà anche necessario ricostruire il rapporto fiduciario con le istituzioni e il Sistema sanitario assistenziale sul territorio, che in qualche regione ha mostrato delle falle. Non è possibile che dei cittadini si rifiutino di eseguire esami sierologici per il timore di essere poi sottoposti a un tampone e “dover” rimanere in quarantena se positivi. Se viene meno il vincolo di solidarietà collettiva, temo che sia solo l’inizio di un decadimento del tessuto sociale. Dovremo, al contrario, essere capaci di intercettare e cogliere i segnali anche subdoli delle conseguenze traumatiche di quanto ci è accaduto, non tanto e non solo come singoli, ma soprattutto come collettività. Penso alla perdita di fiducia da un lato, ma anche alla irritabilità e al disagio sociale, alla ricerca di controllo esemplificata dalle ipotesi complottiste, alla fragile esposizione alle fake news. Dovremo cercare di curare il trauma attraverso la narrazione, la raccolta di testimonianze, l’elaborazione dei vissuti individuali. Occupandoci anche degli stati d’animo, i più vari (sensi di colpa, negazione, minimizzazione, ecc), di chi è sopravvissuto, non ha incontrato il virus, non ha subito conseguenze. Bisognosi anche loro di aiuto. Non so se andrà tutto bene. Certo ci sarà molto da fare.