Era il 30 giugno 1984 quando il Napoli comprava Diego Armando Maradona. Qualche giorno dopo, il 5 luglio, allo stadio San Paolo, di fronte a circa settantacinquemila spettatori festanti il giocatore veniva presentato al suo nuovo pubblico. Cinque palleggi e un rapido saluto, da cui prenderà avvio il settennato più importante della storia calcistica napoletana.

Fu Pierpaolo Marino, all’epoca dirigente dell’Avellino, a fornire la notizia che il Barcellona avrebbe potuto cedere il fuoriclasse sudamericano. In occasione di un incontro con un intermediario argentino, Ricardo Fujca, Marino venne infatti a conoscenza dei rapporti tesissimi tra Maradona e il club spagnolo. Era dunque un momento propizio per provare a comprare il calciatore. Marino propose l’affare prima alla Juventus – che si mostrò poco interessata, soprattutto in virtù del carattere di Maradona ritenuto poco idoneo – e alla Sampdoria, che però non poteva permettersi un acquisto così costoso.

Il passo successivo fu quello di suggerire l’acquisto del pibe de oro ad Antonio Juliano, manager del Napoli, che dopo essersi fatto soffiare Socrates dalla Fiorentina e non essere riuscito a prendere Junior, comprato dal Torino, non credeva più di poter assicurare al club uno straniero di valore. L’idea di portare all’ombra del Vesuvio quello che era considerato il miglior calciatore al mondo, benché dal carattere bizzoso, e farlo avvolgere dal calore del tifo partenopeo allettò da subito la dirigenza azzurra.

L’esperienza di Maradona a Barcellona, dove era arrivato nel 1982, era stata travagliata e intrisa di tensioni e conflitti. Cattivissimi, ad esempio, i rapporti con il primo allenatore, Udo Lattek, che non gradiva la scarsa disciplina durante gli allenamenti e nella vita privata del fuoriclasse argentino, e che venne poco dopo sostituito dal più permissivo Cesar Luis Menotti. Anche con i dirigenti del club catalano, sempre meno inclini a venire incontro alle sue richieste e alle sue stravaganze, e a tollerare le sue dichiarazioni pubbliche spesso bellicose e insolenti nei confronti della stessa dirigenza, i contrasti erano roventi. A complicare di molto la situazione i numerosi mesi di degenza dovuti a un’epatite e poi a un grave infortunio causato da un contrasto di gioco particolarmente scorretto durante una partita contro l’Atletic Bilbao.

La parentesi catalana del pibe de oro fu, in sintesi, segnata da un certo ostracismo da parte dell’ambiente, che tra l’altro guardava agli immigrati sudamericani – i “sudacas” – con atteggiamento discriminatorio. Tutto ciò nonostante prestazioni spesso ottime, un paio di trofei vinti, e a dispetto di una certa benevolenza dello zoccolo duro del tifo locale.

Maradona non voleva più rimanere a Barcellona. Cercava una via di fuga, forse una qualsiasi, e i dirigenti del Barcellona non l’avrebbero certo trattenuto coercitivamente.

La trattativa fu faticosa, travagliata, sempre incerta, portata avanti dal Napoli su due linee diverse. Soprattutto a Juliano spettò contrattare più direttamente col Barcellona, mentre il presidente del club partenopeo, Corrado Ferlaino, si preoccupò dei negoziati con la Maradona Producciones presieduta da Jorge Cyterszpiler. Una preziosa collaborazione su entrambi i fronti fu fornita da Dino Celentano, consigliere della società azzurra e imprenditore locale, che ospitò a Ischia in quei giorni proprio Cyterszpiler, contando di approfittare dello sfondo del golfo di Napoli per trovare un accordo.

A Maradona venivano garantiti guadagni sostanziosi, tra stipendio, premi-partita raddoppiati e percentuali sugli incassi di alcuni match amichevoli. Una prospettiva non irrilevante, specie dal momento che alcune operazioni finanziarie dissennate del suo manager avevano dissipato buona parte del suo patrimonio. Il calciatore argentino, inoltre, sembrava stuzzicato dall’idea di giocare in una città a lui sconosciuta, ma dove si aspettava di essere idolatrato in modo incondizionato e di non dover vivere le stesse tensioni e costrizioni di Barcellona.

Dal canto suo, il Barcellona voleva trarre il massimo profitto possibile dalla vendita del suo calciatore, anche per legittimarne la cessione di fronte a probabili malumori di parte della tifoseria. La cifra richiesta corrispondeva all’equivalente in dollari di circa tredici miliardi di lire, da pagare in tre tranche – un parte subito e due gli anni successivi, più gli interessi per la rateizzazione dei pagamenti. Il tutto in un periodo in cui la quotazione del dollaro saliva giorno dopo giorno, rendendo la transazione sempre più esosa.

L’atteggiamento del Barcellona durante la negoziazione fu al contempo ondivago e inflessibile. Il club catalano provò fino all’ultimo ad aumentare progressivamente il prezzo di vendita, mirando a prendere il Napoli per la gola – specie per i tempi stretti dettati dalla Lega Calcio –, e mantenne un piglio sempre punitivo nei confronti del calciatore argentino, a cui si volevano far scontare due anni di bizze e conflitti. Ma, soprattutto, il Barcellona fu irremovibile sulle garanzie economiche: pretendeva fideiussioni bancarie certe.

In effetti, il Napoli aveva le casse vuote, anzi, debiti per alcuni miliardi di lire. Anche da un punto di vista sportivo non era un buon momento. Si veniva da un campionato piuttosto deludente, con una permanenza in Serie A raggiunta solo nelle ultime giornate. Bisognava, dunque, convincere le controparti trovando le giuste garanzie sportive e finanziarie.

Va detto che negli anni Ottanta l’intera città di Napoli viveva una condizione socio-economica problematica, segnata dall’impoverimento della struttura produttiva, da una significativa deindustrializzazione a cui non farà seguito un’adeguata riconversione economica, dai drammatici esiti speculativi della ricostruzione del post-terremoto, da una recrudescenza del fenomeno camorristico.

Al centro della scena cittadina signoreggiava un solido blocco di potere politico e d’affari. A dispetto dei suoi problemi, Napoli poteva contare su un forte gruppo politico a livello nazionale, espressione della Democrazia Cristiana partenopea, e su un istituto bancario che aveva voce in capitolo nei meccanismi finanziari del Paese. L’abilità di Ferlaino, negli anni della sua presidenza, fu quella di saper far interagire la gestione del club sportivo con la tessitura di relazioni efficaci con il dispositivo politico e affaristico cittadino dominante.

Non a caso, furono diversi gli esponenti democristiani, appartenenti alle varie correnti facenti capo ai grossi leader campani, a sedere nel consiglio d’amministrazione del club. E non a caso, l’intercessione di Vincenzo Scotti, figura di spicco della Dc nazionale e all’epoca sindaco di Napoli, fu determinante per convincere un insieme di banche (Monte dei Paschi, Banco di Roma, Banco di Santo Spirito e naturalmente Banco di Napoli) a fornire prestiti e garanzie bancarie adeguate per l’acquisto di Maradona.

Fu così che il 30 giugno, si narra con un abile stratagemma, Ferlaino riuscì a depositare in Lega Calcio il contratto di Maradona pochissimo tempo prima della chiusura dei termini. Napoli ebbe il suo campione, che in sette anni portò la squadra a vincere due campionati, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa. Il club partenopeo non aveva mai vinto tanto e non è più riuscito a riproporre un simile ciclo vincente.

Per i tifosi napoletani, che spesso avvertono una connessione simbolica tra le sorti della squadra e il destino della città, quegli anni calcistici rappresentarono la possibilità di identificarsi in un rivincita, del tutto allegorica, rispetto ai problemi cittadini, alle gerarchie calcistiche, alla subalternità economica nei confronti del settentrione. Maradona donò al tifo napoletano un’immagine vincente e vinse, tra l’altro, con uno stile di gioco ed esistenziale con cui ai partenopei piace in genere autonarrarsi: geniale, passionale, poco incline a schemi e regole imposte, capace di riscattare una condizione umile ecc. Insomma, Maradona ha rappresentato e rappresenta ancora per i napoletani una potente risorsa in termini di gratificazione, orgoglio e amor proprio.

Tutto ciò poté avvenire solo negli anni Ottanta. Quel calcio andrà poi incontro a una trasformazione radicale in seguito alla sentenza Bosman, al nuovo format della Champions League, all’irruzione fragorosa delle pay-tv, generando un ampliamento sempre meno colmabile della disuguaglianza tra grandi club, retti da capitali globali, e realtà calcistiche più modeste, sia in termini di capacità economica che di risultati sportivi.