Celebrato, condannato, riesumato o sepolto, spesso il passato è terreno di contesa. Ostaggio oggi come non mai di una memoria che lo rifoggia a discrezione. A una «cattiva memoria» serve una «buona storia». 

A partire dagli anni Novanta, il decennio che ha visto, potremmo dire, la vittoria schiacciante della memoria sulla storia, la discussione sul fascismo ha trovato nuovi elementi di vitalità nelle vicissitudini politiche dell’Italia – la discesa in campo di Berlusconi e la sua lunga presenza al potere –, ma anche in una più ampia discussione che si è riproposta e radicalizzata in questi ultimi mesi. La banalizzazione di alcuni aspetti del fascismo proposti da Berlusconi (il confino come villeggiatura) e la sua ripresa di luoghi comuni appartenenti alla tradizione «afascista» del conservatorismo e del qualunquismo (il carattere criminale raggiunto soltanto nel 1938 con le leggi razziali, i successi economici e sociali), hanno conquistato maggiore visibilità diventando spesso memoria «comune» dell’italiano medio. Proprio alla falsità di questa memoria, di quanto «di buono» avrebbe fatto Mussolini, è indirizzato il recente libro, di grande successo editoriale, di Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Legato al nuovo clima politico impersonato da Berlusconi e dai suoi governi era risorto il tema che potremmo chiamare del «fascismo perenne» – o, come lo chiamò Umberto Eco nel 1995, in una conferenza alla Columbia University, l’Ur-fascismo, il fascismo eterno – che si sviluppa tra l’altro proprio mentre a livello scientifico e accademico è in corso un dibattito tra Europa e America che coinvolge il giudizio storico e teorico sul fascismo e sulla possibilità di elaborare una teoria compiuta del fascismo. Discusso in realtà sin dalla fine degli anni ’70, il tentativo di sviluppare una teoria generale del fascismo ha conosciuto molti contributi di grande interesse tra chi riteneva possibile privilegiare la dimensione ideologica, il suo aspetto psicologico – l’«atteggiamento verso la vita» come diceva George Mosse – e chi invece gli aspetti strutturali, statali e organizzativi. Il tentativo di individuare un «fascismo generico» o di darne una più articolata definizione, come ha fatto Emilio Gentile probabilmente meglio di chiunque altro, avveniva mentre sul versante della battaglia politico-culturale si cercava di individuare nella figura di Berlusconi una sorta di fascismo dell’oggi, come venne proposto da storici e sociologi in più occasioni e con accenti diversi ma tutti orientati a ritenere legittima e possibile una comparazione tra il «regime» di Berlusconi e quello fascista. Questa perdita di spessore storico nel non voler circoscrivere l’appellativo fascista a un regime storicamente radicato tra le due guerre significava – anche da chi, paradossalmente, sul versante accademico si schierava contro la teoria di un «fascismo generico» – rilanciare con forza uno scontro sostanzialmente ideologico, in cui alla comparazione si sostituiva l’analogia e all’analisi storica la battaglia politica, rivalutando così di fatto l’idea che il fascismo si potesse e si dovesse giudicare prevalentemente in termini etico-politici e che il discorso morale dovesse prevalere su una più distaccata analisi storica. La possibile o presunta attualità del fascismo è tornata di moda nei mesi in cui Matteo Salvini è stato ministro dell’Interno e in cui il governo Conte, formato dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, ha lasciato spazio – di fatto accreditandole come possibili voci a supporto della loro coalizione – a posizioni espresse da Forza Nuova e Casa Pound, di esplicito recupero della memoria fascista. Su questo tema sono uscite numerose riflessioni che non hanno inciso molto, tuttavia, su un dibattito che è rimasto superficiale e fortemente legato alla strumentalizzazione politica.

I fautori di un pericolo fascista reale hanno sottolineato le somiglianze in un contesto diverso (l’uso della demonizzazione e della delegittimazione dell’avversario, l’idea della maggioranza come potere assoluto, le discriminazioni nei confronti di chi non è considerato «cittadino», il ruolo del leader), i negatori di ogni possibile parallelo hanno insistito sulla mancanza di una deriva violenta e di una precisa ideologia antidemocratica: ma entrambi hanno ritenuto che la memoria (del fascismo) dovesse prendere il sopravvento sull’uso della storia (dei populismi). La possibilità di analizzare il populismo contemporaneo – di cui i due partiti al governo in Italia nella prima metà del 2019 erano espressione, pur se diversamente – è stata indebolita e di fatto impedita dalla spinta memorialistica contrapposta a ricondurre al fascismo e al rapporto fascismo-antifascismo ogni richiamo a forme o a tendenze autoritarie di potere. La storia, che ha tutte le carte in regola, per la ricchezza e la profondità di contributi che ha elaborato negli ultimi decenni, a mostrare l’inconcludenza di un possibile confronto con il fascismo delle attuali spinte autoritarie in diverse parti d’Europa e del mondo, è stata sopraffatta dalla facilità con cui la memoria riduttiva e superficiale del fascismo ha preso il sopravvento sulla possibilità di un’analisi originale e fertile a partire dalla categoria del populismo.

 

Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia sarà disponibile a partire dall'11 giugno, anche sul sito del MulinoMarcello Flores ha insegnato nelle Università di Siena e Trieste. Fra i suoi libri con il Mulino: Il secolo mondo (2002), Il genocidio degli armeni (2005), Storia dei diritti umani (2008), Traditori (2015), Il secolo dei tradimenti (2017), 1968. Un anno spartiacque (con G. Gozzini, 2018).
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Mercoledì 15 giugno alle 18 e 30 con Marcello Flores prosegue l'iniziativa Dialoghi tra le righe in diretta Facebook sulla pagina dell'editore