Le due mozioni di sfiducia presentate nei confronti del ministro della Giustizia Bonafede sono state respinte dal Senato nella seduta del 20 maggio 2020: l’una, quella presentata dal senatore Romeo e altri, con 160 voti contrari, 131 voti favorevoli e un astenuto; l’altra, quella a prima firma della senatrice Bonino, con 158 contrari, 123 favorevoli e 19 astenuti.

Alcuni commentatori ne hanno tratto un’ulteriore conferma dell’inutilità dello strumento delle mozioni di sfiducia al singolo ministro. In particolare, Stefano Ceccanti, dopo aver correttamente ricordato che esse nacquero, a metà degli anni Ottanta, per stabilizzare i governi, imponendo il voto palese sulle mozioni di severa critica nei confronti di singoli ministri, sottopone a critica gli argomenti usati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 7 del 1996 sul “caso Mancuso”, con cui le mozioni di sfiducia individuali furono ritenute conformi a Costituzione, e anzi corrispondenti a vere e proprie consuetudini costituzionali. E sostiene che si tratti di uno strumento dannoso, perché condurrebbe verso una deviazione assembleare della forma di governo parlamentare, auspicando invece l’introduzione del potere di revoca dei ministri da parte del presidente del Consiglio.

Al contrario, proprio l’andamento della vicenda Bonafede mi sembra ribadire che, a Costituzione vigente, tale strumento rappresenti un’utile valvola di sfogo nella nostra forma di governo parlamentare, in linea con la disciplina costituzionale vigente e pienamente coerente con gli assetti che essa è andata assumendo nella dinamica attuale.

Si tratta, infatti, di uno strumento utile anzitutto alle opposizioni, che possono così marcare il loro dissenso, anche radicale, non solo e non tanto con il governo nel suo insieme, quanto rispetto ad alcune politiche settoriali perseguite da un singolo ministro. Ovviamente, se sono solo le opposizioni ad appoggiare la mozione di sfiducia individuale, lo strumento si riduce, come spesso è accaduto, a una mera battaglia “di bandiera”: senza alcuna possibilità di determinare effetti politici significativi, tant’è che tali mozioni spesso non vengono neppure votate (delle oltre 60 mozioni di sfiducia individuale presentate nei due rami del Parlamento, ne sono state votate meno della metà).

Se invece il dissenso è condiviso, più o meno apertamente, da una parte della coalizione di maggioranza, il discorso cambia: la mozione di sfiducia individuale ha chances concrete di essere approvata, e la sua presentazione e la sua calendarizzazione finiscono comunque per determinare effetti politicamente rilevanti. In particolare, possono fare emergere le contraddizioni interne alla coalizione di maggioranza, obbligando a “rese dei conti” tra le sue componenti; o, eventualmente, condurre alle dimissioni “spontanee” del ministro interessato. In questa chiave, ove le dimissioni non siano rassegnate, le mozioni di sfiducia al singolo ministro possono essere utili a “raddrizzare” tali politiche in tutti in quei casi in cui esse non rispecchino adeguatamente l’indirizzo del governo, nella sua collegialità, o comunque della rispettiva maggioranza parlamentare.

Si potrebbe obiettare che tale compito spetterebbe al presidente del Consiglio, in quanto chiamato dall’articolo 95 della Costituzione a dirigere la politica generale del governo e a mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo del governo, coordinando l’attività dei ministri. Tuttavia, è noto che nel nostro ordinamento in capo al presidente del Consiglio non è riconosciuto il potere di revoca dei ministri: non è previsto in Costituzione e non è mai stato esercitato (al massimo, e solo a partire dal 1993, si è riconosciuto, nella prassi, il potere di revoca dei sottosegretari).

Allo stesso tempo, non va dimenticato che la Costituzione prevede altresì, sempre all’art. 95, la responsabilità individuale dei ministri per gli atti dei loro dicasteri. Ed è probabilmente quello che fa leva su questa previsione dell’art. 95 Cost. l’argomento più forte impiegato dalla Corte nella sentenza n. 7 del 1996: la Costituzione configura una responsabilità (anche) politica, alla quale, in una forma di governo parlamentare, deve necessariamente corrispondere un meccanismo per farla valere, identificabile appunto nella mozione di sfiducia individuale. Per dirla con le parole della Corte, “nella forma di governo parlamentare, la relazione tra Parlamento e governo si snoda secondo uno schema nel quale là dove esiste indirizzo politico esiste responsabilità […] e là dove esiste responsabilità non può non esistere rapporto fiduciario”.

Ne discende un’alternativa piuttosto drastica. Se il ministro rifiuta di adeguarsi all’indirizzo collegiale e della sua maggioranza, ma al tempo stesso non intende dimettersi, allora il presidente del Consiglio può, come fece Dini di fronte alle rigidità del suo ministro della giustizia Mancuso, rimettersi all’Assemblea nella relativa votazione per appello nominale, e la mozione di sfiducia si presta così facilmente ad essere approvata. Se invece il ministro accetta di ridefinire le politiche di sua competenza in linea con gli indirizzi della maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio ne supporta l’azione davanti alle Camere, e il conflitto si ricompone in qualche modo (come è naturale che accada, eventualmente anche rimodulando le posizioni e gli equilibri riguardo ad altre politiche perseguite dal governo).

Questa seconda è la circostanza che si è verificata. Il ministro Bonafede ha accettato di essere, come ha dichiarato nel suo discorso al Senato, “ministro della Giustizia di un governo di coalizione” – peraltro, com’è noto, di una coalizione diversa rispetto a quella del primo governo Conte –, riconoscendo di dover perciò adattare le proprie linee di azione. Al tempo stesso, Italia Viva ha probabilmente ottenuto un maggior peso in seno alla coalizione di cui è parte.

Da qui anche la lettura più corretta delle peculiarità della mozione di sfiducia individuale nei cosiddetti “governi tecnici”. In primo luogo, è chiaro che per tali governi è più facile che il ministro – un non politico, per definizione – si riveli poco incline ad adeguarsi alle linee della maggioranza parlamentare che lo supporta. In secondo luogo, in governi siffatti è anche più difficile mettere in opera quei meccanismi di compensazione, prettamente politici, che consentono di uscire dal nodo con mediazioni, appunto, politiche all’interno della coalizione di maggioranza. In terzo e ultimo luogo, nel caso dei “governi tecnici” il rischio politico legato alla sfiducia individuale si riduce, visto che a supporto di un ministro per definizione “non politico” non si schiererà, minacciando evidentemente la crisi di governo, la componente della maggioranza di cui il ministro è parte.  Si spiega perciò come mai l’unica mozione di sfiducia individuale fin qui approvata sia stata quella, già ricordata, al ministro per la giustizia Mancuso, votata dal Senato il 19 ottobre 1995.

Un’ultima notazione, di tipo prettamente procedurale. Come è stato giustamente ricordato nel corso del dibattito, le due mozioni di sfiducia presentate al Senato, pur muovendo entrambe dalle polemiche televisive con il procuratore Di Matteo e da valutazioni severe sulla gestione del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria-Dap, criticavano il ministro della Giustizia per ragioni diametralmente opposte: in termini un po’ semplificati, l’una per aver reagito all’emergenza Covid-19 consentendo a troppi detenuti di ottenere gli arresti domiciliari, l’altra per non aver attenuato a sufficienza il sovraffollamento delle carceri. Come già accaduto per due mozioni discusse il 21 marzo 2019 nei confronti del ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Toninelli, le due mozioni sul ministro Bonafede sono state votate separatamente, con esiti come si è visto non esattamente coincidenti. Nel caso in cui quelle identiche mozioni fossero state presentate alla Camera, invece, su di esse avrebbe avuto probabilmente luogo un’unica votazione: è in questo senso l’orientamento, fatto proprio dalla presidenza Fini al fine evidentemente di evitare il rischio di risultati divergenti tra le due votazioni, e riferito sia, il 14 dicembre 2010, alle mozioni di sfiducia all’intero governo; sia, il 26 gennaio 2011, alle mozioni di sfiducia individuali (nel caso, su due mozioni, diversamente motivate, al ministro per i Beni culturali Bondi).

Si prospetta così, seppure in via potenziale, un ennesimo caso, purtroppo, di quelle asimmetrie procedurali che finiscono per rendere poco razionale il nostro bicameralismo paritario e, in fondo, per ignorare il significato del celebre monito con cui si chiudeva la sentenza n. 35 del 2017 della Corte costituzionale. Laddove, all’indomani dell’esito del referendum del 4 dicembre 2016 – e appunto in nome del buon funzionamento della forma di governo parlamentare che la Corte, con quella sentenza, aveva inteso tutelare – aveva chiesto ai due rami del Parlamento di dotarsi di sistemi elettorali che non ostacolassero, “all’esito delle elezioni, la formazione di maggioranze parlamentari omogenee”. Oggi che, finalmente, abbiamo sistemi elettorali pressoché identici per Camera e Senato, e che si è altresì omogeneizzata la disciplina sul computo degli astenuti, trovano davvero poche giustificazioni difformità di tal tipo nei regolamenti parlamentari, che rendono la maggioranza di governo, ovviamente quale che essa sia, esposta a trappole e tranelli parlamentari di vario genere.