Quando, a fine gennaio, le preoccupazioni per il diffondersi del Coronavirus hanno iniziato a infettare il mondo, in Italia i cinesi sono stati i primi a reagire: è stato calcolato che circa l’80% dei negozi cinesi abbia chiuso nella seconda metà di febbraio, ben prima del lockdown imposto dal governo il 9 marzo. Quella chiusura anticipata può essere letta come il risultato di una sorta di early warning: gli immigrati cinesi e i loro figli sono a stretto contatto con la Cina, e sono stati quindi in grado di prendere misure per ridurre i rischi ben prima che queste fossero imposte dal governo italiano. Di per sé questo non è un comportamento tipicamente cinese: è un comportamento che si è ripetuto lungo le linee geografiche di diffusione del virus, come testimoniano diversi contributi di italiani che vivono all’estero pubblicati su queste pagine.

Tutti si aspettavano che Prato, più ancora di Milano, sarebbe diventata il focolaio d’Italia del virus dal momento che ha la più alta concentrazione di cinesi in Europa. Prato però si è rivelata essere tra le province meno contagiate e il sindaco ha detto a chiare lettere che questo era merito anche dei cinesi, che hanno dato il buon esempio. Prato – l’unica città in Europa ad aver criminalizzato per anni i migranti cinesi – in questi giorni di Coronavirus si mostra grata verso i propri cinesi, e questa gratitudine emerge perfino su quella stampa locale, che nei due decenni scorsi ha sistematicamente descritto gli imprenditori cinesi come quelli che stavano rapacemente impossessandosi del distretto a scapito dei nativi.

Alla diaspora cinese in Italia come “comunità modello” è stato dato risalto anche sulla stampa cinese, che ha reso conto delle donazioni di tute protettive, mascherine e denaro all’Ospedale di Niguarda a Milano e a Prato, Rimini, Reggio Emilia… Ecco allora che proprio dalla pandemia e dalla paura del contagio sembra emergere per i cinesi della diaspora la prospettiva di essere visti sotto una nuova luce: non più solo come cinesi in Italia ma come cinesi d’Italia.

Per quanto possa apparire un passaggio estremamente positivo, vale la pena di chiedersi in che termini questo mutamento accada. I cinesi che vivono in Italia erano già cinesi d’Italia nel loro essere punto di snodo cruciale di sfruttamento, autosfruttamento e riorganizzazione produttiva che ha sostenuto e sostiene la moda italiana. Erano già cinesi d’Italia perché hanno figli che sono nati qui o che qui vivono da quando erano piccoli, e frequentano le scuole italiane.

Nel riconoscerli come cinesi d’Italia solo oggi, gli italiani sono essenzialmente riconoscenti per i loro aiuti concreti, che parlano di una solidarietà capillare in grado di arrivare perfino a livello di condominio, come nel caso delle mascherine lasciate in tutte le cassette della posta in un palazzo di Prato.

Tuttavia, gli aiuti dei cinesi d’Italia, così come le misure di prevenzione che hanno messo in atto in modo saggio e prudente, sono prevalentemente espressione di un approccio all’emergenza Coronavirus che è coordinato dall’alto e promuove, in stretto coordinamento con la Cina, un’azione ben strutturata lungo linee gerarchiche precise. Queste includono attive forme di controllo e sostegno alla diaspora cinese, soprattutto attraverso il China Overseas Chinese Network, promosse dall’ambasciata cinese di Roma e messe in atto dalle maggiori associazioni cinesi sui vari territori. Sono espressione di questa azione orchestrata in coordinamento con la Cina anche i cosiddetti “gruppi di leadership per l’emergenza contagio” che dall’alto hanno creato gruppi WeChat di controllo, scambio di informazioni e sostegno reciproco, e hanno anche organizzato la distribuzione di cibo alle persone in quarantena.

È probabile che queste strutture di controllo e sostegno abbiano giocato un ruolo cruciale anche nel risolvere il problema logistico e sanitario dei circa seicento operai che da metà febbraio si apprestavano a tornare in Italia dalla Cina, dopo avervi trascorso il capodanno cinese e che non avevano un posto dove stare in quarantena. Se per le istituzioni pratesi quei seicento operai avrebbero dovuto rimanere dov’erano, secondo la stampa locale la loro quarantena in Italia è stata organizzata dalle associazioni cinesi, che hanno cercato in affitto appartamenti e intere strutture alberghiere sull’Appennino.

L’azione coordinata dall’alto è stata visibile anche nelle scuole italiane: mentre i dirigenti scolastici si ponevano il problema di proteggere i bambini cinesi da discriminazioni e da emergenze sanitarie, i genitori di quei bambini decidevano di tenerli a casa in maniera sostanzialmente generalizzata e coordinata.

Se tutto questo ha contribuito a tenere i migranti cinesi e i loro figli in sicurezza di fronte al contagio, non dovrebbe essere sottaciuto il fatto che queste misure di coordinamento e limitazione organizzata delle mobilità individuali costituiscono una delle tante azioni altamente politiche e al contempo simboliche che negli ultimi decenni sono una costante della politica cinese di liaison e influenza sulla propria diaspora e di rafforzamento del suo senso di appartenenza.

Nelle nostre attività di ricerca siamo sempre state sospettose verso chi fa derivare i comportamenti lavorativi della diaspora cinese da un modello lavorativo cinese. Abbiamo sempre preferito adottare un approccio che analizza l’agency dei migranti all’interno di dinamiche globali e nel contesto dei condizionamenti che vengono sia dalle aree di partenza sia dai luoghi di insediamento. In questa emergenza però – anche in considerazione delle lotte per l’egemonia che sono in corso a livello globale, rafforzate da guerre di propaganda contrapposte – crediamo che i comportamenti della maggior parte dei cinesi che vivono in Italia possano essere ricondotti al modello cinese di guerra all’epidemia da Coronavirus. Xiang Biao definisce questo modello come “reazione a griglia”, consistente nella mobilitazione di comunità residenziali, distretti, città che agiscono come griglie, con tanto di “manager di griglia” (di solito volontari) e “capi griglia” (cioè quadri del Partito che ricevono stipendi dallo Stato) per imporre una sorveglianza serrata su tutti i residenti, minimizzando le mobilità e isolando sé stessi. Si tratta di una forma di controllo sociale preesistente che è stata irrobustita durante questa pandemia in termini di intensità e di competenze.

Questo sembra essere proprio l’approccio che è stato calato dall’alto sulla diaspora cinese in Italia e messo in atto senza variazioni significative. Isolamento e forme di controllo sociale sono imposte dall’alto anche dal governo italiano. Il punto qui è che in questo caso le misure imposte sono quelle decise in coordinamento con la Cina, e che questo si inquadra nella narrazione che la Cina sta facendo di sé stessa – e che sembra guadagnare terreno anche in Italia – come di un Paese forte e moderno, capace di guidare il mondo intero nella lotta al virus. I cinesi d’Italia che si sentono maggiormente protetti perché in Italia è arrivato il team medico dalla Cina non fanno che amplificare questa narrazione.

Insomma, i cinesi d’Italia non sono stati considerati come tali in virtù dei tanti modi in cui da decenni stanno contribuendo a fare dell’Italia l’Italia. Sembrano diventarlo ora, proprio nel momento in cui la pandemia rafforza nazionalismi e narrazioni nazionaliste in un numero crescente di aree del mondo.