Graffiti contro la guerra. La faccia di Bart Simpson si mischia alla tradizione grafica mediorientale: ancora una volta Beirut conferma di essere il palcoscenico sul quale i nuovi movimenti arabi muovono i primi passi. Un tempo era presa d’assalto da scrittori e giornalisti che cercavano di sfuggire alla censura dei loro regimi, oggi dagli artisti di strada che amano esprimere la propria creatività colorando le pareti dei sobborghi. A molti sfugge, ma i graffiti nel mondo arabo affondano le loro radici nell’amore per la scrittura che ha dato origine a quelle scuole calligrafiche che continuano a influenzare la cultura contemporanea locale. Basta pensare ai murales degli Ashekman, due fratelli gemelli che dipingono a Beirut combinando colori psichedelici con la tipografia araba che deriva dagli stili calligrafici kufi o diwani. Vere e proprie creazioni artistiche che rendono la scrittura immagine e pittura. Ma il valore di questi murales non è solo artistico.

Anche se i primi graffiti libanesi risalgono alla fine degli anni ’60, è solo a partire dagli anni ‘80 che si può parlare di vera e propria arte di strada. Il Libano di quegli anni era martoriato dalla guerra civile i cui segni sono ancora ben visibili sulle mura che ospitano i variopinti murales che decorano il lungo viale di Karantina, uno dei sobborghi dipinto più generosamente dai writers. Karantina era stata palcoscenico di un massacro compiuto dalle milizie falangiste nel 1976, che costò la vita a circa 1500 persone che abitavano questa baraccopoli mussulmana nel quartiere cristiano di Beirut. Le mura di Karantina sono solo alcune delle numerose pareti delle strade di Beirut nelle quali appaiono murales con chiari messaggi socio-politici. Nella maggior parte dei casi si tratta di slogan indirizzati più al popolo libanese che alla classe politica nazionale. Il Rek Crew, un altro gruppo di writers locale, utilizza i propri disegni per invitare il popolo libanese alla coesione nazionale. “Vogliamo un paese”,”Vogliamo governare” : questi appelli, lanciati agli automobilisti che transitano sotto il ponte di Karantina, sollecitano la popolazione a superare le numerose divisioni religiose presenti nel paese, dove si trovano ben 18 gruppi religiosi, per creare un’identità nazionale pacifica.

Ma non alimentare le divisioni nazionali non vuol dire tacere davanti agli orrori dei conflitti armati: ecco perché durante i 33 giorni di bombardamenti lanciati nel 2006 da Israele nel sud del paese, sulle mura di Beirut si sono moltiplicati i murales. Il fatto che uno degli slogan più ricorrente sia “Gaza fi kalbi – Gaza nel mio cuore” mostra come i writers libanesi tengano gli occhi aperti sul mondo. Parlano un arabo al quale intervallano parole inglesi che ormai hanno fatto proprie. Vestono pantaloni larghi e si riconoscono utilizzando sigle da decifrare. Sembra quasi che la cultura underground occidentale sia stata interiorizzata da questo movimento artistico senza creare le tensioni sorte ogni volta che l’Occidente ha esportato il proprio stile di vita in Medio Oriente. Ciò nonostante l’arte di strada libanese è stata una tendenza nata dal basso, nelle periferie di Beirut, Sidone, Tripoli. L’humus creativo nazionale è stato solamente contaminato dalle immagini e dai colori di tutto il mondo. Il risultato è un mix perfettamente amalgamato grazie al quale i graffiti urbani sono riusciti a fare diventare le critiche individuali sociali. Per questo c’è chi, come Arts Lounge, una delle principali gallerie commerciali di arte contemporanea, ha sentito il bisogno di dare dignità a questi artisti, invitandoli a esporre all’interno della propria prestigiosa sede. Ma anche il paradiso dei graffitari mediorientali potrebbe avere le ore contate. La morsa della censura inizia a farsi sentire. Ashekman confessano di essere stati più volte minacciati mentre dipingevano. Si ripeterà a Beirut ciò che è già successo a Jeddah, dove le autorità municipali hanno deciso di confinare i writers in zone riservate esclusivamente a loro, imprigionando di fatto l’arte di strada?