La gestione dell’epidemia legata alla diffusione del Covid-19 è un’esperienza amministrativa totale. Coinvolge tutti i livelli di governo immaginabili, da quelli locali alle istituzioni internazionali, mobilita le comunità scientifiche attorno a un problema epidemiologico nuovo e mutevole, chiama i policy makers di ogni Paese a prendere decisioni straordinarie, repentine e rischiose.

Con riferimento all’esperienza italiana, uno degli aspetti che sin da subito è emerso come critico riguarda l’adeguatezza dei rapporti centro-periferia e in particolare l’efficacia del regionalismo emerso dalla riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001. D’altra parte, si tratta di un dibattito inevitabile dal momento che la crisi tocca quell’assetto nel vivo del sistema sanitario, che forse rappresenta l’esperimento più avanzato di quella riforma, dove «avanzato» indica solamente l’intensità del cambiamento prodotto rispetto allo status quo, non una valutazione dello stesso.

Lo scoppio dell’emergenza ha immediatamente portato risposte differenziate a livello regionale. A queste si è contrapposta una altrettanto repentina spinta centralizzatrice. L’evolvere della crisi ha visto un complesso rapporto fra governo centrale e la regione Lombardia, con comportamenti inizialmente all’insegna del blame shifting, poi rientrati nell’alveo di una cooperazione/competizione problematica che, mentre queste righe vengono scritte, si sta dispiegando nella costruzione del nuovo ospedale presso la Fiera di Milano.

Si tratta sin qui di vicende che, al di là di alcune scivolate istituzionali di cui si sarebbe volentieri fatto a meno, sono tipiche di sistemi politico-amministrativi federali o simili, e l’Italia – specie per quanto attiene a questo settore di policy – rientra a pieno titolo in questa categoria. Ciò che è meno comprensibile è la reazione del dibattito pubblico di fronte alle criticità del disegno istituzionale, che continua a riproporre stereotipi macro-organizzativi che vedono ora tornare di moda la centralizzazione: «lo Stato dovrebbe avere più poteri»; «il decentramento crea confusione», etc. In epoche precedenti gli slogan erano opposti ed egualmente fuorvianti.

Tuttavia, per apprendere da una crisi non basta subirla passivamente. Gli shock, così come «i dati», non parlano da soli, non ci dicono chiaramente cosa fare, quando farlo e, soprattutto, come farlo. Occorre essere predisposti all’apprendimento che, in circostanze del genere, vuol dire porsi le domande giuste. Domande del tipo «Serve uno Stato più forte o regioni più forti? Meglio un sistema accentrato o decentrato?» predeterminano risposte-stereotipo. Sono quindi domande che ci impediscono di apprendere. Sono, incidentalmente, le domande che piacciono ai partiti politici (o quel che resta di loro), perché semplificano e concedono ai loro leader pro-tempore facili catastrofismi: «quella riforma porterà a dei disastri!», improbabili idilli: «quando c’era lo Stato!», atteggiamenti di scherno e autocompiacimento: «se fosse passata la nostra riforma…». Stereotipi, non solo inutili, ma anche dannosi nella misura in cui impediscono a una collettività di apprendere dai propri errori e migliorare le proprie istituzioni.

Occorre partire, si è detto, dalle domande giuste. In questo caso a essere cruciale non è tanto se un sistema sia accentrato o decentrato, ma come accentramento e decentramento sono declinati nei numerosi snodi che un sistema istituzionale necessariamente comporta. Non occorre scomodare i classici del pensiero organizzativo per suggerire che le strategie di decentramento possono essere selettive: alcune decisioni sono più opportunamente prese a un livello, altre dovranno essere collocate altrove. Persino la riflessione giuridica ha introiettato questo principio attraverso il concetto di «sussidiarietà». Ci paiono premesse ovvie. Vengono insegnate nelle aule di università, ma poi tutto finisce lì. Due vicende emerse dall’attuale gestione dell’epidemia ci dicono che questi princìpi sono ancora lettera morta, lezioni che per qualche motivo – «la politica» c’entra molto, ma forse non è il solo fattore inibitore – non riusciamo ad apprendere.

La prima vicenda riguarda uno dei momenti iniziali della crisi, negli ultimi giorni di febbraio. Il governo nazionale ha individuato le zone rosse e gialle; dopo un primo momento di attenzione rispetto alle strategie di contenimento dell’epidemia, emerge il tema economico e di riduzione dei danni alla produzione; vengono dati segnali volti a sminuire l’entità del problema. In questo contesto la decisione del presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli di chiudere le scuole ha innescato una decisa reazione centralista da parte del governo – che di lì a poco assumerà «la piena responsabilità politica» della gestione della crisi – e aspre critiche dell’opinione pubblica. La storia si chiude con il decreto urgente del Tar che ha sospeso l’ordinanza del presidente facendo leva (tra le altre cose) sulla mancanza di contagi in regione e il ministro per le Autonomie Francesco Boccia che ha commentato con un icastico «Lo Stato c’è e si è fatto rispettare».

Si badi bene, qui il punto rilevante non è rappresentato dal fatto che il presidente della regione Marche abbia preso una decisione che si è rivelata, a posteriori, ragionevole, tanto che di lì a pochissimo il governo ha applicato le stesse misure su tutto il territorio. Anzi immaginiamo uno scenario in cui l’epidemia si fosse rivelata molto meno intensa di come sappiamo essere andati i fatti e il presidente Ceriscioli avesse preso, in tutta libertà, il provvedimento precauzionale che invece è stato disapplicato in ottemperanza delle direttive governative in materia. Sarebbe forse stato sanzionato dall’opinione pubblica della sua regione per eccesso di scrupolo, oppure premiato per aver messo la salute al primo posto, o tutto sarebbe stato dimenticato. Non lo sappiamo. In ogni caso, non avendo preso provvedimenti con delle esternalità su cittadini di altre regioni e non mettendo a rischio quelli della propria, di fatto ha compiuto un’azione che rientra in pieno nel perimetro di decisioni che possono essere decentrate. In aggiunta, essendo il responsabile politico della sua regione è anche l’attore che avrebbe rischiato di più da uno scenario negativo. Il decentramento è dunque coerente con la distribuzione del rischio politico, mentre la logica assolutista con cui si è giocata la vicenda evidenzia, a parere di chi scrive, una profonda inadeguatezza culturale con la quale le nostre istituzioni affrontano problemi che per definizione non possono coincidere con le categorie del diritto amministrativo. Non è una questione di colpe o errori personali, ma di un sistema di regole che ha paradossalmente fatto prevalere una definizione “di Stato” del rischio epidemiologico, in una situazione in cui la discrezionalità locale non sembrava costituire una minaccia.

La seconda vicenda riguarda la somministrazione dei tamponi. Qui il punto di partenza è ancora una volta l’eterogeneità delle scelte regionali e la scelta di centralizzare. Ancora una volta il momento decisionale ci porta a fine febbraio. La necessità è quella di coordinare un processo caotico, ma anche quella di contenere il panico che si era creato nei giorni precedenti a causa del repentino aumento dei contagi. Così arrivano norme nazionali che uniformano le procedure di rilevazione del dato relativo ai contagi, restringendo la pratica ai soli pazienti sintomatici. Successivamente la regione Veneto ha riaffermato la sua volontà di perseguire una policy diversa, basata sulla somministrazione massiva di test e da ultimo anche la Toscana si è mossa in questo senso.

Rispetto alla vicenda precedente, l’elemento critico non riguarda la direzionalità del cambiamento organizzativo, ma il suo contenuto. Standardizzare le procedure di rilevazione dei dati era una scelta doverosa, a tal punto che in vero il problema si dovrebbe porre a livello internazionale. Tuttavia, le scelte fatte a livello centrale hanno lasciato più di qualche dubbio, dal momento che deliberatamente impediscono di avere delle stime attendibili sul numero reale dei contagiati. Si tratta di un’informazione cruciale non solo a livello scientifico, per conoscere dal punto di vista epidemiologico questa malattia, ma anche come strumento di pianificazione strategica e coordinamento. Questo è stato ribadito dall’Organizzazione mondiale per la sanità e suggerito da alcuni modelli gestionali che sembrano essere efficaci in Paesi come la Corea del Sud e Taiwan, dove l’affidabilità dei dati e la loro gestione aperta mediante l’uso di device tecnologici permette scelte di policy che possono poggiare su meccanismi di coordinamento anche spontaneo e non solo su misure coercitive. La decisione di centralizzare era corretta, ma – al netto di questioni di fattibilità tecnica – è stata centralizzata una policy nata su premesse sbagliate e che priva i policy makers, ma anche i cittadini, di strumenti utili per l’adozione di strategie e comportamenti efficaci. Inoltre, il fatto che le regioni abbiano mantenuto policies diverse dimostra come la centralizzazione, quando non si tratta di questioni di “ordine” (cfr. vicenda precedente) non crea automaticamente compliance.

Le vicende prese in esame sono solo due dei possibili esempi che ci dovrebbero indurre a modificare il modo in cui il tema della governance viene affrontato in questo Paese. Occorre uno sforzo, soprattutto da parte di chi fa opinione, ma sperabilmente anche da parte della classe politica, di rinunciare ai tanti stereotipi con cui siamo soliti dare senso alla gestione delle principali politiche pubbliche nel nostro Paese. Smettere di immaginare che esistano delle panacee: non lo è stato il centralismo dei primi decenni di vita repubblicana, non lo è nemmeno il regionalismo degli ultimi decenni. Sfortunatamente queste storie dimostrano come continuiamo imperterriti a commettere sempre gli stessi errori; la speranza è che la gravità di questa crisi induca a porci le domande più adeguate per apprendere qualcosa di utile.