I piccoli borghi, così come le città, non sono opere d’arte. Sono luoghi di vita e di cambiamento, mescolanza di economie e paesaggi, incrocio di generazioni. Quando un terremoto li distrugge non è agli storici dell’arte o ai cultori dei beni culturali che possiamo chiedere le risposte (o almeno non tutte). Neppure ai soli ingegneri e architetti. Servono competenze varie che sappiano confrontarsi anche duramente sulle soluzioni possibili.

Così non accade, mai. Dopo ogni evento catastrofico, il Paese – i suoi politici, i suoi mezzi di informazione - tende rapidamente a convergere intorno a una posizione semplice e rassicurante. Non c’è tempo per il pensiero e per il dubbio. Più un fatto è complesso e difficile da risolvere, più sono immediate e semplici le ricette proposte. Più un fatto è complesso, più tendono a tacere quelli che sarebbero deputati a parlarne: ingegneri, sismologi, geologi e scienziati. Tacciono, salvo eccezioni, perché è difficile spiegare e chiarire questioni spesso tecniche facendosi capire dai non addetti ai lavori; tacciono perché il grande pubblico è più disponibile ad ascoltare la storia personale delle vittime o la voce di un noto critico d’arte piuttosto che le argomentazioni dello scienziato. Alla fascinazione dell’uomo di lettere faremo sempre fatica a contrapporre il dubbio metodico dell’uomo di scienza.

Così, nel silenzio di chi dovrebbe parlare ma non ha gli strumenti mediatici per farlo e nel clima di emotività che inevitabilmente si genera, prevale lo slogan più facile e consolatorio. D’altro canto, come in tutti gli eventi drammatici (attentati o incidenti), è l’emotività ad animare il dibattito, fino a che il tema si consuma e scompare dall’interesse collettivo, dopo pochi giorni o settimane.

A tre anni e mezzo dal terremoto che ha colpito l’Umbria, le Marche e l’Abruzzo, che ne è stato di quel portato di emotività e volontà di ricostruzione che ha animato quei giorni?

Era la notte del 24 agosto 2016 quando si registrò la prima scossa di terremoto che sconvolse la Valle del Tronto; la seconda il 30 ottobre, dopo soli due mesi. È in questa occasione che Norcia, Castelluccio, Preci e l’abbazia di Sant’Eutizio, e l’intero territorio dove Benedetto di Norcia si ritirava in preghiera, sono stati irrimediabilmente compromessi.

Subito, in quelle prime ore, un concetto primonovecentesco viene mutuato dal linguaggio dei beni culturali e diventa estremamente popolare; è rassicurante e fornisce una risposta incoraggiante al disastro emotivo del terremoto: ricostruiremo tutto dov’era e com’era.

Che cosa significava? Che cosa si intendeva ricostruire? Le opere pubbliche, le scuole, gli ospedali, i presidi di sicurezza (stazioni di polizia, di salute pubblica), che certamente attengono agli obblighi e alle responsabilità dello Stato. E le case private? Quali? Tutte? Anche quelle costruite senza rispetto delle regole di buona costruzione? Le seconde case? Sono questioni che puntualmente si sono riproposte anche a Ischia, con la complicazione di un patrimonio edilizio in gran parte abusivo.

È comprensibile che la promessa della ricostruzione immediata sia la naturale aspettativa delle popolazioni colpite; la distruzione di affetti, cose, relazioni, porta inevitabilmente a sperare che tutto torni come era nel più breve tempo possibile. È in parte comprensibile che questo sia il messaggio politico delle prime ore di un governo che voglia farsi sentire solidale e presente.

Questa prospettiva appare invece meno comprensibile quando sposata, senza se e senza ma, dalla gran parte degli uomini di cultura, dai tecnici e dagli opinion leader, come accadde per il terremoto del centro Italia, con una convergenza culturale che non ammetteva deroghe.

Architetti, storici dell’arte, esperti di beni culturali applicano ai sistemi urbani, città e villaggi, gli stessi criteri del recupero e della conservazione dei manufatti artistici (dipinti, sculture, monumenti). Il campanile è caduto, lo si ricostruisce riposizionando le pietre cadute; una chiesa è lesionata, la si mette in sicurezza con gli strumenti dell’ingegneria; un affresco è in parte stato distrutto, se ne rintracciano lacerti e frammenti per restituirne l’intero. Così si impara a fare nelle università, così si procede nei laboratori di restauro, così vuole quell’esile mercato della conservazione più ortodossa dei beni culturali che ancora sopravvive in Italia, tra mille vincoli e fatiche.

Ma le città - e questo dovrebbero dirlo soprattutto gli urbanisti se avessero voce e un po’ di onestà intellettuale - sono ecosistemi che interagiscono con il tempo, con la natura e i suoi pericoli, e oggi anche con i cambiamenti climatici. Le città sono sempre state il luogo della rigenerazione e del cambiamento, non solo della ricostruzione à l’identique. Un cambiamento che si è nutrito di demolizioni, di tradimenti, di riusi impropri. Infinite chiese sono state costruite su templi pagani, fraintendendone le forme e le materie; infinite piazze sono nate da sedimi precedenti, da un foro romano, da una rovina.

I nostri padri - quelli più antichi - ci hanno consegnato borghi meravigliosi che non hanno mai interrotto in realtà la loro continua, lenta evoluzione. Noi, nella nostra incapacità di leggere i segni più silenziosi di tale mutamento, vorremmo cristallizzarli nel tempo come oggetti museali, da preservare come fossero arrivati a noi immutati e immutabili per sempre.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 1/20, pp. 110-118, è acquistabile qui