Qualche anno fa un ministro della Pubblica Istruzione lanciò l’idea – o meglio la rilanciò, dato che ritorna con cadenza periodica, una volta a legislatura, e una volta a legislatura viene accantonata per mancanza di fondi, costo del personale, inidoneità delle strutture, eccetera – rilanciò l’idea di tenere aperte le scuole anche al pomeriggio, a beneficio degli studenti che hanno bisogno di ripetizioni o anche solo di un posto tranquillo per fare i compiti. Era un’idea giusta: le scuole non dovrebbero aprire alle otto e chiudere all’una, come le poste. Solo che a questa idea giusta il ministro ne aggiungeva un’altra relativa al modo in cui impiegare queste aperture pomeridiane: organizzare, tra l’altro, dei «percorsi di approfondimento dello studio di Dante». Non se ne fece niente, ovviamente (i fondi insufficienti, il costo del personale, l’inidoneità delle strutture), ed è stato meglio così, perché questa invece non era una buona idea. Ma era ed è un’idea interessante perché dice, in un dettaglio, in che cosa consiste secondo chi governa il Paese una buona formazione culturale, e per quali vie la si deve perseguire. Per questo non è inutile riflettere, oltre che sulla cosa in sé, sul concetto che sta dietro alla cosa.

1. La prima cosa che bisogna domandarsi è se di ‘più Dante’ si senta davvero il bisogno: se, a scuola e fuori della scuola, il poeta nazionale non venga non si dice letto, ma proposto a sufficienza.

Di fatto, come si sa, Dante è onnipresente nei programmi a ogni livello dell’istruzione scolastica. Lo si studia per mesi nelle ore di Lettere: e non solo la Commedia ma anche, com’è giusto, la Vita nova (per la lirica antica e le origini dell’autobiografia), il Convivio (per la figura del Dante-filosofo), il De vulgari eloquentia (per la storia della lingua). In sostanza coincide con lui, con la sua opera, quasi tutto il Medioevo che la gran parte degli studenti arriva a conoscere. Petrarca e Boccaccio stanno molto più in ombra, poi il Medioevo finisce e il salto è a Machiavelli, ad Ariosto. La Commedia, poi, è il libro di lettura in classe – a seconda del tipo di scuola – per uno, due o tre anni. Lettura dei canti, parafrasi, significato allegorico eccetera. Così, per molti studenti la Commedia, cioè pur sempre uno dei libri più difficili che siano mai stati scritti, non è solo la prima grande opera narrativa con cui entrano in contatto ma anche quella su cui, finita la scuola, avranno speso più tempo: il libro della vita; per molti, l’unico libro, e questo spiega tra l’altro perché un mucchio di cinquantenni che non leggono né romanzi né poesia si commuovono riaprendo dopo decenni la Commedia o sentendola recitare: è nostalgia per i tempi della scuola più che per i libri di scuola.

È una scelta saggia? È una scelta formativa? Io non ho un buon ricordo dei miei 10+10+10 canti parafrasati al liceo classico. La letteratura che m’interessava era quella che leggevo per conto mio a casa, al pomeriggio: per lo più romanzi moderni. Ci vogliono tutte e due le cose, si dirà, ed è senz’altro vero. Ma il fatto è che molti dei miei compagni di liceo con quella seconda letteratura non sono entrati mai in contatto se non, di sfuggita, alla fine dell’ultimo anno, quando tutto viene versato in fretta nell’imbuto che porta al nefasto esame di maturità. Troppo tardi.

A questa insistenza a scuola si somma, oggi, l’insistenza dei media, perché da qualche anno a questa parte Dante va di moda. Lo si legge nelle piazze, nei teatri, nelle carceri, in televisione. Lo leggono davanti a un pubblico sempre numeroso e commosso studiosi, divulgatori, attori. E in particolare le letture di Benigni in Piazza Santa Croce a Firenze, e poi in televisione, hanno trasformato la moda in un fenomeno di massa. Tutto questo va benissimo. Ovviamente si può sempre eccepire sulla trasformazione della cultura in spettacolo e sulla contraddizione tra lettura e consumo collettivo. E ovviamente non è detto che tutti quelli che assistono alle letture di Dante in piazza o in televisione andranno poi a leggersi la Commedia, o qualsiasi altro libro. Ma una parte di loro, per quanto piccola, lo farà, e gli altri avranno passato un paio d’ore del loro tempo ricordando o imparando qualcosa, e questo è certamente un risultato positivo. L’alternativa è non fare niente.

Tutto si può dire, dunque, ma non che l’offerta non sia larga, costante e diversificata. Ci si può domandare dunque se proprio su Dante doveva cadere la scelta ministeriale, e se è proprio a lui che devono essere dedicate, oltre a quelle curricolari, delle lezioni pomeridiane, e non invece per esempio alle lingue straniere, che oggi imparano decentemente solo quelli che hanno i mezzi per pagarsi una scuola privata o dei soggiorni all’estero, cioè un’esigua minoranza della popolazione. In realtà, viene il sospetto che il provvedimento del ministero sia stato ispirato proprio dal successo mediatico del prodotto Dante. «Il successo di Benigni – devono essersi detti – indica che c’è nella società civile un nobile desiderio di poesia, e della poesia di Dante in ispecie. È giusto, dunque, che anche la scuola faccia la sua parte promuovendo più di quanto già fa la conoscenza e l’amore per il poeta nazionale». Ma in realtà non è molto giusto. La scuola dovrebbe indirizzare la società, gli orientamenti culturali della società, non andarle al traino, e dovrebbe dare agli studenti non ciò che commuove o diverte la massa ma ciò che, a mente fredda, si ritiene utile per la loro formazione. Si può discutere all’infinito su questo – su che cosa sia meglio imparare, se sia meglio Dante o l’inglese, o qualcos’altro – ma è certo che i programmi non devono rincorrere le mode o le tendenze, anche quando queste mode o tendenze siano in se stesse positive.

2. La seconda domanda che bisogna porsi è collegata alla precedente ma è più complicata. L’offerta di Dante è dunque grande, anche senza le addizioni pomeridiane; ma non può darsi allora che sia addirittura già troppa? Non può darsi che far leggere Dante a tutti, sempre, sia una cattiva strategia, se lo scopo è quello di far amare – più ancora che far conoscere – la letteratura? A me pare che sia proprio così, e che l’iniziativa del ministero sia sbagliata anche perché incoraggia, piuttosto che lo studio, il culto di un autore che siamo già tutti anche troppo propensi a trattare come una Cosa o come un Ramo dello Scibile invece che come un essere umano (lo si vede molto bene nel campo degli studi specialistici, dove questo culto dell’eroe ha generato un’intera disciplina, i «Dante Studies», una decina di riviste dedicate a Dante e la bizzarra famiglia dei ‘dantisti’: esperti, se non di un unico libro, di un unico grande uomo).

A buona parte degli studenti delle scuole superiori Dante non dice assolutamente niente, e questo è normale. È difficile che dei quindicenni che in vita loro non hanno mai letto un romanzo possano apprezzare un linguaggio così difficile o trovare sublimi scene e figure che per mancanza di esperienza – della vita e della letteratura – non possono che trovare strampalate o noiose. Per loro la lettura di Dante, in classe o a casa, è una punizione, una punizione che spesso avrà l’effetto contrario rispetto a quello sperato, cioè li allontanerà dalla letteratura. A una parte non piccola degli studenti, invece, Dante piace. Il loro piacere è spesso ingenuo, superficiale, immediato: non è un caso se gli episodi di Paolo e Francesca (l’amore), di Ulisse (l’avventura) e del conte Ugolino (il grand-guignol) sono sempre i più amati e ricordati. Non è un caso e non è un errore, perché questi episodi vanno letti e apprezzati proprio con l’ingenuità del lettore delle favole o dei feuilleton: con l’urgenza di sapere com’è andata a finire. Che degli adolescenti possano andare molto più in là (e interessarsi, poniamo, alle sottigliezze teologiche della Commedia, ai rapporti con Aristotele, alla geografia dell’aldilà, e insomma a tutta quella ‘struttura’ che potrebbe essere l’oggetto di lezioni integrative) mi sembra improbabile, e forse non è neppure augurabile. Le fissazioni sono sempre una brutta cosa, e tanto più lo sono nell’adolescenza, quando davanti allo studente si aprono orizzonti sconfinati di libri, idee, opere d’arte. ‘Sapere bene la Commedia’ non è il primo obiettivo che la scuola deve porsi. Non sono particolarmente simpatici, né mostrano di avere una particolare vocazione per la letteratura, quei quindicenni che si deliziano con la pastorella di Cavalcanti o con le novelle di Boccaccio. Spesso sono intelligenze pigre, poco originali, pronte a giurare su qualsiasi articolo di fede che venga loro proposto, ivi compresa la fede nella ‘voce eterna dei classici’. E non sono particolarmente interessanti i tanti docenti universitari di letteratura italiana che passano la vita a glossare la Commedia, di lectura Dantis in lectura Dantis, ma ignorano qualsiasi cosa non rientri nell’orizzonte della loro disciplina, o nella lista dei libri che la scuola ha dichiarato una volta per tutte adatti ad essere studiati. Forse dovremmo cominciare a chiederci se anche nelle università non stiamo allevando dei conformisti che non avranno niente di originale da dire – a cui proibiamo di dire qualcosa di originale – non solo sulla letteratura o sulla vita ma neppure sul canone che imponiamo loro come un giogo a partire dai diciott’anni. Forse arrivare alla voce eterna dei classici passando attraverso altre esperienze, altre letture, potrebbe rendere le cose un po’ più interessanti, potrebbe addirittura aiutarci a sentire per davvero la voce eterna dei classici. [...]

 

[Estratto del capitolo omonimo dal volume E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell'istruzione umanistica, Il Mulino, 2017]