L’articolo con cui, sul «Corriere della Sera» del 4 gennaio scorso, il grecista Walter Lapini contestava la tendenza degli atenei italiani a inquadrare immediatamente nei propri ruoli di insegnamento stabili i vincitori dei cospicui finanziamenti alla ricerca erogati dallo European research council ha suscitato un ampio e aspro dibattito. Da un lato, si è contestato l’atteggiamento liquidatorio, spesso al di là del lecito, nei confronti di un programma di sostegno alla produzione di conoscenza utile, trasparente e meritocratico che ha consentito di mettere in circolo energie intellettuali altrimenti a rischio di emarginazione.Dall’altro vi è stato chi ha notato come, al di là dell’irruenza del linguaggio, l’autore ponesse un problema reale di eccessiva concentrazione dei fondi su poche azioni di ricerca selezionate in forme inevitabilmente arbitrarie.

 

Si tratta di questioni complesse, che per essere comprese devono, secondo me, essere inquadrate tenendo conto di alcuni presupposti necessari. In primo luogo, i cosiddetti progetti Erc sono una parte, cospicua ma non esclusiva, di un Programma quadro continentale pluriennale di sostegno alla ricerca e agli alti studi che finanzia attività e soggetti diversi. Esso, nel suo insieme, è pensato soprattutto per un approccio top-down, ossia per la promozione di studi e attività in settori della ricerca identificati alla fonte e con metodologie, approcci e finalità concordate preliminarmente. Quello dell’Unione europea non è né vuole essere, nel suo complesso, una forma di sostegno alla ricerca di base, e anche nei programmi che presuppongono la maggiore libertà da parte del proponente (come i finanziamenti Erc, appunto, o le Marie Skłodowska Curie fellowships individuali) le guidelines privilegiano, se non certi metodi di lavoro, interessi e attitudini da parte del ricercatore.

È in questo senso che si spiega il (criticato e legittimamente criticabile) “genere letterario” originato dalla stesura dei progetti europei, incentrato su parole-chiave facilmente individuabili e sulla spinta a prevedere risultati, impatto e coinvolgimento del pubblico extra-accademico in un lavoro, quello della ricerca di frontiera, per definizione imprevedibile nei suoi esiti. L’obiettivo non è tanto quello di costringere a predeterminare i risultati, quanto quello di capire con che tipo di studioso si ha a che fare e se il proponente è in grado di portare avanti il proprio lavoro secondo presupposti previsti a monte.

Allo stesso modo, in questo contesto deve essere valutata l’altrettanto legittima critica all’efficacia dei finanziamenti, considerati spesso eccessivi rispetto all’impatto effettivo dei risultati, specie se paragonati al peso di lavori svolti con sostegno economico inferiore. In un programma di questo tipo la vittoria del progetto è più importante della sua esecuzione, perché significa innanzitutto l’inserimento in un network professionale che segna una carriera e che diventerà una risorsa insostituibile per trovare nuove posizioni e per iniziare nuove imprese.

In generale, tutto ciò ha senso perché iniziative come il Programma quadro europeo per la ricerca hanno obiettivi precisi, ampi e a lungo termine. Come nel caso del grande impegno economico sulle due sponde dell’Atlantico da parte delle grandi fondazioni culturali americane tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del secolo scorso, anche l’Unione europea intende innanzitutto orientare la ricerca scientifica di tutti i settori strategici, forgiarne i contenuti e le aree di interesse, modificarne codici e linguaggi, rivederne in ultima analisi la ragion d’essere. E fare ciò secondo un’agenda politico-culturale precisa fatta di promozione dei valori democratici e pluralisti e del dialogo, riconoscimento del valore delle storie e delle identità “altre”, apparentemente marginali e periferiche nella costruzione di un mondo plurale, lotta alle discriminazioni, sostenibilità, coniugazione di efficienza economica e impatto ambientale, crescita dell’economia della conoscenza, ecc.

Siamo quindi di fronte a un grande intervento di “politica della conoscenza” che va preso e valutato in quanto tale. In particolare, occorre riconoscere (e magari discutere) il fatto che negli uffici europei per la ricerca si intendono promuovere esplicitamente certi saperi funzionali a un modo di interpretare il mondo e di agire su di esso, ma nessuno da quelle parti sostiene che scienza e ricerca siano solo ciò che la Ue promuove. Al di fuori di quegli orientamenti, atteggiamenti e campi tematici c’è un mondo assai più vasto e altrettanto degno, che trova la propria collocazione nella ricerca di base, il cui sostegno è esplicitamente previsto nei documenti dell’Unione come impegno dei singoli stati membri. Noi italiani, anzi, dobbiamo proprio a queste direttive se il programma di finanziamento di base della nostra ricerca, i Progetti di rilevante interesse nazionale (Prin), esiste ancora e non è stato completamente cancellato dai pesanti tagli di una decina di anni fa.

Questo dettaglio, che spesso non si ricorda, aiuta a farci capire che le distorsioni eventualmente prodotte dalla ricezione dei fondi di ricerca comunitari hanno un’origine pressoché esclusivamente italiana. Da un lato, la ricerca nel nostro Paese è storicamente sottofinanziata: a un impegno economico pubblico insufficiente corrispondono un sistema produttivo perlopiù parcellizzato in piccole unità che, salvo rare eccezioni, non hanno la forza di compiere seri sforzi di ricerca e sviluppo, e un’organizzazione del lavoro intellettuale il cui adeguamento agli standard accademici internazionali è ancora in corso. Dall’altro, come ho avuto modo di mettere in chiaro, il reclutamento di docenti e ricercatori risulta pressoché sempre improntato a una gestione dell’emergenza che nasce dall’incapacità di provvedere a ingressi lineari e adeguati ai bisogni del sistema.

A causa del combinato disposto di queste tare di lungo periodo nella ricerca accademica italiana, tra loro peraltro profondamente intrecciate, spesso l’iniezione di fondi di finanziamento pensati su una scala per noi inimmaginabile, come sono appunto quelli dell’Unione europea, produce cortocircuiti sia economici sia culturali. In primo luogo, somme così ingenti stimolano per forza di cose gli appetiti di soggetti istituzionali storicamente “denutriti” come i nostri atenei, anche perché comprendono cospicui overhead (somme che vanno immediatamente a bilancio dell’istituzione ospite a compensazione dei suoi servizi, e che possono essere utilizzati liberamente), capaci di risolvere problemi di bilancio e di sostenere attività collaterali altrimenti inimmaginabili. È dunque prevedibile che il titolare di un progetto di quelle dimensioni acquisisca un potere contrattuale tale da imporre richieste di una posizione stabile immediata. Questo anche perché, in un sistema di assunzioni asfittico, lento e per di più scarsamente legittimato agli occhi dell’opinione pubblica (basti pensare alla frequenza con cui la gestione di un concorso a cattedre viene presentata come una macchinazione di “baroni” a favore di “raccomandati”, o alla tendenza a usare la retorica dell’“eccellenza” come requisito indispensabile per la professione accademica allo scopo di restringere i ruoli), essere “incoronati” dall’Europa rappresenta un tassello importante per rendere una nomina inattaccabile.

Così, se in un reclutamento dal funzionamento fisiologico la stabilizzazione pressoché automatica dei titolari di Erc e dei Curie fellows si configurerebbe come naturale assorbimento nel sistema di studiosi capaci, nel caso italiano essa non fa altro che rappresentare una nuova fonte di squilibrio per un sistema di assunzioni in cattedra troppo lento, che non sa trattare i casi “ordinari” con la frequenza e la rapidità richieste dalle istituzioni universitarie di un paese pienamente sviluppato. E su questo punto mi sento di essere ancora più esplicito. In un paese in cui la quota di buoni laureati nella fascia di età 25-34 dovrebbe aumentare almeno del 40% per avvicinarsi seriamente alla media Ocse, e in cui per un cinquantennio si è compiuto un grande sforzo per migliorare l’articolazione delle sedi su base territoriale, il prossimo passo dovrebbe essere quello di promuovere una differenziazione funzionale degli atenei ponendo l’accento su didattica e public engagement oltre che sulla ricerca, con un conseguente aumento del fabbisogno di docenti preparati a un nuovo ruolo sociale. Invece questo mutamento di paradigmi non è neppure all’ordine del giorno nel dibattito pubblico, e ogni intervento sembra piuttosto giustificare un rallentamento nell’accesso alla docenza inevitabilmente destinato a rendere ancora più decisivo il discrimine rappresentato dal successo nella competizione europea.

In conclusione, i problemi e le asperità che i commentatori di questi giorni sembrano rilevare attorno ai programmi europei per la ricerca trovano le loro radici in questioni di lungo periodo che caratterizzano l’università italiana praticamente dalla nascita: finanziamento asfittico, reclutamento difficoltoso e a singhiozzo, impossibilità di differenziare le funzioni delle sedi così da rendere più vario il profilo professionale della docenza accademica. Da questo punto di vista appare poi ancora più assurdo individuare un “prima” (dell’impatto dei fondi europei, della riforma Gelmini) da rimpiangere, per la gestione delle cose universitarie in Italia, rispetto a un “dopo”. Gli interventi più recenti, infatti, non hanno fatto altro che interagire con cause profonde di malfunzionamento del sistema che non ci si è mai seriamente impegnati a individuare e aggredire, e hanno avuto semmai il demerito, anch’essi, di non essere adatti a risolverle.