Il libro di James Hawes, uscito in italiano per i tipi di Garzanti, promette “la più breve storia della Germania che sia mai stata scritta”, ma consegna al lettore una tesi pesante e controversa. Hawes non è uno storico, ma un brillante british novelist, che ha studiato a lungo il mondo germanico ed è abituato a maneggiare la satira. Ne esce una sintesi affascinante, fruibile e divulgativa; un affresco chiaro e inequivocabile come, va detto, solo i racconti parziali sanno essere. La conclusione cui la narrazione tende con forza, con un sapiente gioco di allusioni e anticipazioni, è tranchant: il problema della Germania è sempre stato uno solo, la persistente alterità culturale dell’Ostelbien, i territori a Est del fiume Elba.

Con questa indiscutibile lente di ingrandimento, Hawes rilegge tutta la storia tedesca, da Giulio Cesare a Carlo Magno, dalla Prussia a Hitler, da Adenauer ad Angela Merkel, fino alle elezioni del 2017 (data dell’uscita del libro in lingua originale), quando il successo del partito di estrema destra Afd ricalca la geografia orientale dell’affermazione del partito nazista negli anni Trenta: «Se tra il 1928 e il 1933 tutta la Germania avesse votato come la Renania, la Svevia e la Baviera, Hitler non sarebbe mai diventato cancelliere… Niente Ostelbien, niente Führer: è molto semplice».

Nel dibattito tedesco la tesi non è nuova, ma Hawes gli conferisce un’originale rotondità onnicomprensiva. Non è un caso che in Germania il libro abbia avuto buone recensioni: non solo perché strizza l’occhio a stereotipi consolidati nei ceti colti dei Länder Sud occidentali, ma perché in epoca di recrudescenze nazionaliste la provocazione scalfisce il mito dell’unità germanica, stempera nel lungo periodo la rilevanza simbolica del Muro di Berlino e coglie l’occasione per un ripasso non peregrino del cuore della storia europea. Hawes è ad esempio molto abile nel ricordarci che fu Tacito a “inventare i Germani” – “l’altro” da conquistare, integrare e governare –, e che i Germani restituirono il favore reinventando Roma, poiché il fondamento dell’Europa medievale risiede nella miscela tra diritto romano, chiesa centralizzata e potenza militare dei franchi: «Il ricordo di Carlo Magno è così durevole perché la sua figura costituì il ponte che rese possibile il passaggio della cultura romana al mondo medievale, e da lì a noi». Sempre procedendo per alterità, l’autore ci ricorda che la potente Prussia degli Junker deve il suo nome ai “prusci”, parola con cui erano designati quei popoli pagani e analfabeti che vivevano al di là dell’Elba e che i cavalieri teutonici, spediti in crociata dall’Imperatore Federico II, descrivevano in maniera non dissimile da come Cesare dipingeva i Germani.

Essendo tutta tesa alla verifica della dicotomia Est-Ovest, nella storia di Hawes non c’è spazio per altre sfumature. Tanto per fare un esempio, la Riforma protestante è appiattita nei suoi effetti politici, che l’autore sintetizza nella sfida all’equilibrio medievale tra Chiesa e Impero. In quest’ottica, i princìpi protestanti divengono in un certo qual modo “colpevoli” di avere rotto la cornice della “romanità” (una categoria evocata tanto da divenire fumosa), e di aver preparato quell’humus militar-religioso su cui gli Junker prima e il nazismo poi avrebbero prosperato.

«I primi a decidersi furono i più distanti da Roma: i cavalieri teutonici. Il loro Gran Maestro, Alberto di Brandeburgo-Ansbach, dopo aver incontrato di persona Lutero, dichiarò di non essere più il capo di un ordine cattolico che doveva obbedienza al papa e all’Imperatore, ma il protestante duca di Prussia a pieno titolo, nominalmente sottomesso al re di Polonia. Questo succedeva il 10 aprile 1525. È la data più importante della storia tedesca tra l’800 e il 1866. In quella strana colonia oltre il fiume Elba, oltre perfino la Polonia, dove meno di un secolo prima dimoravano ancora autentici pagani, c’era, per la prima volta dai tempi della vittoria di Carlo Magno sui Sassoni, un regno tedesco che rifiutava qualsiasi tipo di fedeltà alla chiesa o all’imperatore di Roma».

Emblematico del tono, questo passaggio perentorio rappresenta il cuore del libro, lo snodo che traghetta il lettore dalla Germania occidentale alla Prussia: quella “terra oltre”, pre-asiatica, mai completamente romanizzata ma cristianizzata dalla Riforma, che per affermare il proprio ceto militare impose alla Germania occidentale un’unità statuale, la Grande Guerra e infine il nazismo. In estrema sintesi, il problema storico dello Stato tedesco è di essere stato fondato da «una potenza minore a Est di quello che gli imperatori Augusto e Carlo Magno consideravano il confine naturale dell’Europa occidentale». Tutto il Novecento e il presente attuale discenderebbero dal fatto che Bismark riuscì a intestarsi il nazionalismo e il risorgimento tedesco. Sotto questa luce – è questo l’aspetto più originale del libro – lo scioglimento della Ddr e la riunificazione degli anni Novanta assumono i contorni di un regresso politico, poiché segnano la fine della formalizzazione adenaueriana di una Germania finalmente soltanto occidentale. Passando da Bonn a Berlino «il centro di gravità politico della Germania passò dall’antica Renania, un tempo romana, a una città la cui pretesa di essere la capitale nazionale era basata sull’idea che nel 1871 fosse avvenuta una vera unificazione».

In Speak for England, la satira che lo ha reso celebre nel 2006, Hawes preconizzò il Paese della Brexit. Diverso nel genere, anche questo libro ci ammonisce su un futuro incerto e intravedibile, lasciandoci buone intuizioni insieme alla certezza che le soluzioni politiche sono più complesse di un libro scritto bene. Purtroppo, nelle ultime righe il nostro non resiste, e abbozza una sua proposta in salsa contemporanea: «La Germania occidentale dovrebbe smettere di sprecare soldi nel tentativo di compiacere una regione che è impossibile compiacere. Dovrebbe concentrarsi su di sé». Le sirene del lettore italiano si accendono: a Ovest dell’Elba il vento fischia come al Nord del Po. Forse, in fondo, significa che l’Europa esiste. Questa brevissima storia insegna che esiste da tanto tempo.