La sentenza del 14 ottobre scorso con cui il Tribunale Supremo ha condannato 9 dei 12 leader indipendentisti catalani ha provocato forti tensioni in Catalogna e introdotto una grave turbativa nella campagna elettorale che porterà gli spagnoli per la quarta volta alle urne negli ultimi quattro anni il 10 novembre.

Dei 12 imputati, 4 sono stati condannati per sedizione e malversazione, 5 per sedizione e 3 a pene pecuniarie per disobbedienza. Gli alti magistrati non hanno accolto né le richieste dei pubblici ministeri che avevano chiesto condanne per il reato di ribellione e la preclusione al possibile futuro accesso al regime di semilibertà, né quelle avanzate dell’accusa popolare, una sorta di parte civile rappresentata da Vox, che aveva chiesto condanne per organizzazione criminale. Nessun colpo di Stato, dunque, da parte dei leader catalani, come il nazionalismo spagnolo aveva gridato ai quattro venti. Optando per la sedizione, il Tribunale Supremo ha applicato pene detentive più lievi di quelle contemplate per il reato di ribellione, ma comunque pesanti. Oriol Junqueras, vice presidente nel 2017 della Generalitat e leader di Erc, si è visto comminare 13 anni di carcere e altrettanti di interdizione dai pubblici uffici, gli altri imputati dai 12 ai 9 anni, a seconda dei casi, con periodi di interdizione pari agli anni di condanna.

Considerati gli episodi in cui il procès indipendentista aveva trasgredito le leggi vigenti, non si poteva attendere una sentenza assolutoria, né qualcuno si era spinto a tanto. I magistrati hanno dunque applicato, interpretandola come sono preposti a fare, la legge. In un importante paragrafo nelle 493 pagine della sentenza si leggono considerazioni di notevole spessore storico e giuridico sul valore etico e sociale della disobbedienza civile, anche quando incorre nelle sanzioni della legge, che tuttavia i magistrati hanno ritenuto non configurarsi nell’azione degli imputati in quanto “responsabili politici incardinati nella struttura dello Stato [...] con capacità normativa [...] che si presentano, con un irriducibile paradosso, come personaggi che incarnano un potere pubblico che disobbedisce a sé stesso”. Non sorprendono allora i malumori con cui il verdetto dei giudici è stato accolto a destra, in modo sguaiato su alcuni giornali e da parte di Vox.

Com’era prevedibile, la protesta contro la sentenza ha visto scendere per le strade una marea umana impressionante, composita e pacifica. In occasione dello sciopero generale indetto dai sindacati sovranisti il 18 ottobre, si è assistito alla comparsa della nuova organizzazione indipendentista Tsunami Democràtic e a un nuovo protagonismo dei Comitès de Defensa de la República (Cdr), ma anche, per la prima volta dall’inizio del procès, a numerosi scontri con le forze di polizia per le strade di Barcellona e di altre città ad opera di gruppi radicali protagonisti di atti violenti e di vandalismo, con centinaia di arresti e con molti feriti da una parte e dall’altra.

All’indomani della sentenza il problema catalano resta intero, se possibile aggravato rispetto a prima e ancor più lacerante. Divisi tra loro sono i partiti spagnoli, divisi i catalani tra indipendentisti e non, divisi i partiti indipendentisti catalani sul da farsi. È quanto avviene quando la politica rinuncia o fallisce, lasciando il posto alla magistratura.

Comunque lo si giri il problema posto dall’indipendentismo catalano era e resta di natura squisitamente politica, da affrontare dunque con gli strumenti della politica, che sono l’ascolto, il dialogo, la mediazione e soprattutto l’attenzione a non incagliarsi in strade senza uscita. Da questo punto di vista né il governo di Madrid guidato dal popolare Rajoy all’epoca dei fatti che hanno portato al processo (referendum e dichiarazione unilaterale d’indipendenza), né la Generalitat presieduta all’epoca da Puigdemont, responsabile con i suoi alleati delle inizative al di fuori della legalità, hanno mostrato il senno politico che le circostanze avrebbero richiesto. Il primo per aver testardamente ridotto il problema a questione di ordine pubblico ed essersi fatto scudo con l’assetto costituzionale per mascherare il proprio immobilismo. I secondi per l’avventurismo demagogico con cui hanno prospettato come facile e percorribile la via dell’indipendenza, suscitando aspettative irrealizzabili. Così al referendum e alla proclamazione dell’indipendenza hanno fatto seguito l’esautorazione del governo catalano in applicazione dell’art. 155 della Costituzione, poi nuove elezioni autonomiche che hanno ribadito gli equilibri precedenti. E cioè – non è superfluo ricordarlo –, una maggioranza nelle Cortes catalane favorevole all’autodeterminazione, in rappresentanza di una cittadinanza nella quale l’opzione indipendentista, sia pure di poco, è rimasta minoritaria. Infine il processo al procès, di cui s’è detto.

Il problema catalano ha condizionato in più occasioni la storia spagnola del Novecento e sta continuando a farlo in questo scorcio del nuovo secolo e millennio, che vede il Paese nel momento più difficile della sua storia recente. Di certo non l’aiuta il fatto che lo si trovi a vivere nel bel mezzo di una campagna elettorale nella quale, come nel passato, le posizioni che si assumono in merito al problema catalano sono destinate ad avere peso sull’esito del voto. Non è infatti un mistero che le aperture al dialogo fanno perdere voti nel resto della Spagna, mentre gli atteggiamenti muscolari li fanno guadagnare. Non per caso il Pp, Ciudadanos e Vox stanno chiedendo di ricorrere nuovamente all’art. 155 e addirittura all’applicazione di leggi speciali (Ley de Securidad del Estado), richieste che mettono i socialisti con le spalle al muro facendo apparire la loro saggia prudenza e moderazione come accondiscendenza e debolezza di fronte alla sfida indipendentista.

Stando così le cose, risulta ancor meno comprensibile la condotta di chi ha preferito chiamare nuovamente gli spagnoli alle urne e affrontare un momento così difficile con un governo in funzione, di minoranza e in bilico per l’imminente scadenza elettorale. (Sui motivi per cui in Spagna, a differenza del caso italiano, non si sono mai avuti governi di coalizione rinvio alla condivisibile analisi di Anna Bosco e Francesco Ramella.) Non v’è dubbio che le principali responsabilità siano da attribuire, anche se a parere di chi scrive in modo non uguale, ai leader del partito socialista e di Unidas Podemos. A Pedro Sánchez per l’estenuante lentezza con cui ha condotto il dialogo con il potenziale alleato dopo le elezioni del 28 aprile scorso e perché, considerando reversibili i cambiamenti introdotti dalle elezioni del 2015 con l’irruzione di nuovi partiti e coltivando il proposito di favorire il ritorno al precedente bipartitismo, ha disdegnato il governo di coalizione proposto da Unidas Podemos. A Pablo Iglesias per non aver colto al volo la disponibilità del leader socialista di affidare a Up alcuni ministeri (anche se di peso minore a quelli legittimamente richiesti) e per aver tirato troppo la corda.

I sondaggi sulle intenzioni di voto concordano finora sulla significativa ascesa del Pp a scapito di Ciudadanos. Un incremento di voti che tuttavia lascerebbe i popolari in seconda posizione e quindi nell’impossibilità di vedere assegnato al loro leader, Pablo Casado, l’incarico di formare il nuovo governo. Meno concordi sono le previsioni sul risultato degli altri partiti, per i quali le variazioni non sarebbero comunque di particolare rilievo, mentre il nuovo movimento nato da una costola di Podemos, Más País, guidato da Iñigo Errejón, viene accreditato di una percentuale di voti attorno al 5%. La media delle inchieste attribuiva fino a qualche giorno fa una leggera superiorità all’insieme delle forze di sinistra (Psoe, Up e Más País) su quelle di destra (Pp, Ciudadanos e Vox), ma il divario risulta tendenzialmente in calo e non è escluso che nelle tre settimane i rapporti di forza si ribaltino. Allo stato attuale, lo scenario più plausibile vedrebbe una sostanziale conferma degli equilibri preesistenti con le stesse soluzioni sul tappeto: un governo di minoranza del Psoe o una coalizione tra socialisti e Up con l’eventuale concorso di nazionalisti baschi e catalani. In questo caso, e a maggior ragione qualora il vento delle destre tornasse a spazzare le terre di Spagna, Pedro Sáchez ne uscirebbe con le ossa rotte, come penultimo interprete del cameronismo. Quando si convocano elezioni (o referendum) non necessari o previsti dal calendario istituzionale con l’intenzione di vincerli e poi si perdono o lasciano le cose come stavano, il neologismo da David Cameron viene spontaneo. Vale anche per chi provoca una crisi di governo con l’intento di rafforzarsi, finendone estromesso. Ecco perché Sánchez sarebbe il penultimo.