Roberto Cerati confessava con un certo pudore che si sentiva più a suo agio in una libreria che a casa propria. Fu a lungo il direttore commerciale dell’Einaudi degli anni d’oro, per poi diventarne presidente, morto Giulio, in anni meno aurei. Era l’idolo dei librai di tutt’Italia e nel corso dei decenni aveva costruito una formidabile rete commerciale, pur non perdendo mai l’abitudine di passare tra gli scaffali per fare personalmente «la spunta» (controllare la presenza dei titoli del catalogo Einaudi). Era solito trascorrere il sabato tra le librerie di Milano. Io lo ricordo alla Hoepli, dove si soffermava soprattutto a sfogliare i libri d’arte, una sua passione, e a chiacchierare con Patrizio Gandin, uno dei suoi «figliocci», che lo informava sulle novità della saggistica italiana e straniera.

Il suo giro comprendeva, per la parte che conosco, la Cortina di piazza Cavour, la Feltrinelli di via Manzoni, la Milano Libri di Anna Maria Gandini in via Verdi, per poi avviarsi verso le librerie della Galleria e proseguire verso quelle attorno alla Statale. Finché ci fu Vando Aldrovandi, la sua libreria di riferimento era naturalmente la Einaudi in Galleria Manzoni, anche perché attorno a Elio Vittorini si era costituito uno spontaneo cenacolo di amicizie, che proseguì a lungo dopo la sua scomparsa. Dopo la morte di Aldrovandi (1987), molti intellettuali si spostarono naturalmente verso la Feltrinelli di via Manzoni, dove c’era il vantaggio di poter sfogliare la stampa straniera e fare quel po’ di naturale salotto che accade di fare in libreria sotto gli occhi del Casati, un vecchio (almeno così pareva ai miei occhi di giovane testimone) libraio milanese che dalla cassa controllava tutta la libreria.

I librai di via Manzoni appartenevano a due categorie: una minoranza erano i figlioli della borghesia milanese in cerca di un destino (ricordo ad esempio Anna Cederna), la maggioranza erano giovani librai, come Luca Domeniconi, destinati a una fulgida carriera nella galassia feltrinelliana sotto l’occhio vigile di Romano Montroni. La Feltrinelli di via Manzoni era diversa da tutte le altre Feltrinelli: era più mondana, salottiera, anche grazie al pubblico che la frequentava: i funzionari della Banca Commerciale, i redattori stessi della Feltrinelli che era dall’altra parte della strada, i professori della Statale, quel po’ di mondo cultural-politico che gravitava su quella parte di Milano. Cerati aveva l’abitudine di tenere degli informali seminari coi librai dopo la chiusura serale, a partire dalla lettura comune di un libro. Vi assistei per caso una sola volta e non ho più ritrovato una forma di educazione libraria così efficace, in cui si sottolineavano non solo le virtù culturali del libro ma anche gli spunti commerciali che poteva suggerire, il tipo di pubblico che poteva raggiungere. Ora giunge la notizia della chiusura della Feltrinelli di via Manzoni, aperta da Giangiacomo nel 1957, la prima vera Libreria Feltrinelli (dopo una libreria popolare aperta qualche anno prima in un Bastione di Porta Volta), voluta per rafforzare la nascente casa editrice secondo un progetto pedagogico che si definì nel suo farsi. Non stupisce però la notizia: dopo lo spostamento del quartier generale a Porta Volta e la morte di Inge, la Feltrinelli Manzoni era sempre di più un anacronismo rispetto a quelle più grandi di nuova generazione, alle Feltrinelli RED (Read Eat Dream), dove l’acquisto dei libri è solo parte di un’esperienza (l’americana experience) che chi entra è indotto a compiere.

La chiusura della Feltrinelli Manzoni si assomma a quella di un enorme numero di librerie indipendenti e in parte di catena negli ultimi dieci anni

Eppure la chiusura della Feltrinelli Manzoni si assomma a quella di un enorme numero di librerie indipendenti e in parte di catena negli ultimi dieci anni, incalzate dalla lunghissima crisi economica e dalla crescita di Amazon che oggi rappresenta circa un terzo del mercato librario italiano. La crisi del libro è per certi versi antica quanto il mercato del libro, ma oggi proprio la libreria sembra sempre l’anello più debole dell’intero sistema librario, anche se qualche pazzo si ostina ad aprirne di nuove e la stessa Feltrinelli, se da un lato ha chiuso un certo numero di librerie in giro per l’Italia, dall’altro ha puntato a forme di rinnovamento.

La domanda di fondo resta sempre la stessa: c’è un futuro per le librerie? C’è un gran tifo perché le librerie abbiano un futuro ma fare il tifo, ahimè, non basta. Le abitudini stanno cambiando. Colpiva qualche giorno fa la notizia del titolare di una calzoleria, nel modenese mi pare, che chiede dieci euro a chi vuol provare un paio di scarpe senza poi acquistarle nel suo negozio, presumendo che poi lo faccia online. Anche nelle librerie è pieno di clienti che, armati di smartphone, fotografano copertine. Per ora è un’attività gratuita, ma il 15% di sconto che garantisce Amazon su ogni acquisto, in attesa della nuova legge sul libro, rende difficilmente biasimevole questa pratica.

Eppure la legge sul libro, che prevede uno sconto fisso del 5%, divide gli editori grandi che vorrebbero avere un maggior agio commerciale e i più piccoli, che già faticano a sopravvivere, e ogni maggior sconto significa un possibile investimento in meno. Sarà molto difficile disabituare i clienti allo sconto, la prima esca di ogni attività commerciale, ma una legislazione coerente e duratura è la cornice di sopravvivenza delle librerie. Un secondo punto è il plusvalore del singolo libraio, accresciuto in tempi di Amazon, che per intrattenere rapporti costanti con la clientela dovrà essere informato, aggiornato, leggere, saper far di conto, non acquistare merce in eccesso o in difetto, e soprattutto inserire la libreria in una rete di relazioni comunitarie così da divenire un punto di riferimento nel quartiere. Una naturale socievolezza aiuta, ma il punto è conquistare un’autorevolezza con i frequentatori della libreria. Le librerie specializzate conquistano più facilmente tribù di lettori che si possono riconoscere tra loro, ma una vetrina ben fatta, un tavolo all’ingresso con accostamenti giudiziosi dei libri di cui si parla, sono caratteristiche che riguardano le librerie di ogni tipo.

A ciascuno poi il compito di creare un ecosistema per cui tornare in quella libreria diventa una necessità per rispondere alle domande che si fanno a un libraio. Domande per solito riguardano l’intero scibile umano – il libraio ne è il temporaneo depositario – ma alcune sono ricorrenti: «Cosa posso regalare a una vecchia zia che legge solo Simenon, anzi li ha letti tutti?», oppure: «Cosa posso leggere per farmi un’idea sulla guerra di Troia?», o ancora: «Mio figlio passa tutto il tempo con i giochini elettronici. Mi dica almeno un libro che non smette di leggere dopo tre pagine?». E così via. Sono domande che chi ha lavorato in una libreria si sente rivolgere tutti i giorni e a cui Amazon dà difficilmente delle risposte.

Il digitale ha cambiato il mondo del libro, eppure il libro prevale sull’ebook in maniera schiacciante, pur in una prevedibile futura coesistenza

Un altro punto è rendere più facili i rapporti tra editori, distributori e librai: oggi, guardando al comparto, si ha spesso l’impressione che una piccola folla si accalchi spingendo sulle scalette del Titanic, con ognuno che rivendica i propri antichi diritti. Così non può funzionare. Bisogna poi smettere di dar troppo credito ai profeti delle nuove tecnologie che trovano sempre orecchie interessate. Il digitale ha cambiato il mondo del libro: enciclopedie, opere di consultazione, manuali tecnici in più volumi, sono, se ancora esistono, residui del XX secolo, ma negli altri casi il libro prevale sull’ebook in maniera schiacciante, pur in una prevedibile futura coesistenza. Ricordiamocelo quando arriverà il prossimo profeta ad annunciarci la fine del libro di carta.

Educare alla necessità e alle virtù della lettura non è compito del libraio, ma quando mi capita di accompagnare scolaresche in giro per una libreria, mi accorgo che molti studenti non sono mai entrati in una libreria. Sarebbe utile che le associazioni di categoria (librai ed editori) trovassero contatti sistematici con il mondo della scuola, perché questa divenga una pratica regolare.

Si potrebbe andare avanti e rendere il discorso più tecnico, ma insomma non vorrei che i miei ricordi delle librerie milanesi avessero il tono nostalgico della celebre frase di Talleyrand: «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non sa cosa sia la dolcezza del vivere». Ma di una cosa almeno si può essere certi: un mondo senza librerie sarebbe un mondo più brutto e, soprattutto, meno libero.