Come già ricordato su queste pagine, La macchina del vento di Wu-Ming 1, al secolo Roberto Bui, ha il merito di ricordare a italiani smemorati la brutalità del fascismo, l’ignominia del confino di polizia e la dignità dei confinati antifascisti. Ambientato nella colonia confinaria di Ventotene durante la Seconda guerra mondiale, il romanzo è di intrigante lettura, mescolando generi letterari diversi. La fiction è anche il mezzo per rileggere il passato in modo funzionale alla riflessione sull’attualità politica. È su questo piano che, da storica, mi sento chiamata in causa, pur sapendo che non è a un romanzo che si può chiedere rigore critico. L’obiettivo polemico di Wu-Ming 1 è il manifesto Per un’Europa libera e unita, scritto nel 1941 a Ventotene da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli con il contributo di Eugenio Colorni. La critica al Manifesto federalista è affidata un personaggio immaginario, Erminio Squarzanti, un giovane socialista che, con lo pseudonimo di “Acribio”, scrive una lettera a Severo (Spinelli), Ritroso (Rossi) e Commodo (Colorni). A lui l’autore attribuisce alcuni dei giudizi che, a Ventotene, furono rivolti al Manifesto da parte socialista e giellista.

Non intendo puntualizzare le contraddizioni che, dal punto di vista storico, sono presenti nel romanzo, peraltro ben documentato sulla vita del confino. Mi rivolgo invece ai lettori dei Wu-Ming che incontreranno il Manifesto di Ventotene attraverso questa rivisitazione letteraria ricavandone un’immagine negativa e, forse, definitiva. Li invito ad andare oltre il fascino esercitato dall’intrigo romanzesco per farsi un’opinione diretta del Manifesto federalista, leggendolo criticamente ma distinguendo tra il suo significato storico e le letture ideologiche susseguitesi nel tempo, di cui questo romanzo è l’ultimo esempio.

Un Manifesto democratico. Nella sua lettera, Acribio rimprovera gli autori del Manifesto di Ventotene (soprattutto Spinelli) di differenziarsi dagli stalinisti per il fine ma non per il metodo. Li accusa di avere «sfiducia nelle classi popolari» e di nutrire un’«idea di azione dall’alto da parte di un nucleo di illuminati», «avanguardia dell’unico vero partito rivoluzionario della nuova epoca», deciso a costruire l’unità europea senza attendere «un più esteso suffragio». È vero: di fronte alla crisi delle democrazie negli anni Venti e Trenta, al successo della demagogia nazionalista, alle folle oceaniche osannanti il duce e al plebiscito della Saar a favore di Hitler, un certo pessimismo sull’autonomo sviluppo delle masse popolari traspare dalla riflessione di Rossi e Spinelli. Non c’era però in questa distinzione fra minoranze organizzate e masse alcuna connotazione di classe né volontà di separatezza: solo il riconoscimento di un diverso grado di consapevolezza, che poteva essere superato con il confronto e attraverso un’opera di educazione e attivazione della volontà popolare. Riconoscere questo non significava aderire a una logica anti-democratica ma porsi il problema di attrezzare le forze democratiche a resistere alla prossima crisi post-bellica, sulle cui potenzialità rivoluzionarie i federalisti puntarono inizialmente per dar vita a una costituente europea. In tal senso vanno interpretati sia l’accento “giacobino” presente nel Manifesto – che scomparirà in seguito, quando inizierà a profilarsi la divisione dell’Europa in rigidi blocchi contrapposti – sia la frase che scandalizza Acribio sulla necessità di modellare la «lava fluida» della coscienza popolare, duramente provata dalla guerra, nella nuova forma europea, prima che fosse di nuovo rinchiusa negli stampi degli Stati nazionali.

Un Manifesto con espliciti contenuti sociali. Ignorata (non solo) da Bui, la terza parte del Manifesto è dedicata a un vasto programma di riforme sociali. Questa scaturì dalla penna di Ernesto Rossi, che nel romanzo è descritto come un «allampanato economista» interessato solo alla «difesa dello spirito imprenditoriale, nella polemica contro il collettivismo e quant’altro». In realtà, il giellista Rossi, erede della tradizione salveminiana e rosselliana, era allora impegnato nella stesura di altri due scritti: Critica del capitalismo e Abolire la miseria. Qui Rossi immaginava un’originale forma di Stato sociale e prefigurava un’economia di mercato posta al servizio dell’uomo, in cui la libera iniziativa non fosse spenta nella collettivizzazione generale ma «aggiogata al carro sociale», ossia indirizzata dal potere pubblico a fini di benessere collettivo. Che il “contenuto” sociale non sia mancante lo suggerisce d’altronde il fatto che a più riprese il Manifesto federalista è stato accusato – altrettanto erroneamente – di progettare una socializzazione di stampo collettivista, la cui paternità è attribuita all’ex-comunista Spinelli. Opposto alla rilettura di Bui, anche questo giudizio trascura il contributo del giellista Rossi e non si avvede di come il progetto di riforme incluso nel Manifesto sia avulso da una prospettiva classista e dai vizi del collettivismo dogmatico. Inoltre, tali riforme sociali erano considerate possibili solo entro un nuovo spazio istituzionale europeo, la cui costruzione era l’obiettivo prioritario di una specifica azione politica, volta a trasformare l’internazionalismo da ideale astratto – più proclamato che agito – in realtà viva e operante. 

Un Manifesto laico ed ecumenico. Sembra ancora difficile accettare che un socialista (Colorni), un liberale-giellista (Rossi) e un ex comunista (Spinelli) abbiano potuto insieme produrre qualcosa di nuovo, fuori dal tradizionale scontro ideologico. Nel 2017, sul blog de «Il Giornale», Dino Cofrancesco affermò di non comprendere come il liberale Luigi Einaudi avesse potuto sottoscrivere il Manifesto di Ventotene, un documento a suo dire intriso di socialismo anti-liberale. Sta di fatto che sia il liberale Einaudi sia il socialista Colorni non solo aderirono, ma se ne fecero attivi promotori. Arroccati su sponde opposte, Cofrancesco e Bui non riescono ad apprezzarlo, ma sono esistiti (ed esistono) liberali federalisti e socialisti federalisti, così come ci sono stati (e ci sono) cattolici, valdesi ed ebrei federalisti. Il federalismo considera infatti prioritaria la costruzione di uno spazio sovranazionale che allarghi la libertà d’azione all’interno di istituti democratici e laici, così che le diverse forze politiche e culturali possano confrontarsi entro un quadro più ampio e articolato su diversi livelli di governo. Chi mostrerà di avere più filo, tesserà allora più tela.

Un Manifesto che guarda al futuro. Verso questo traguardo di civiltà, Spinelli e Rossi cercarono di convogliare forze di diversa provenienza ideologica e nazionale. L’invito era a prendere posizione lungo la nuova linea di confine che tracciava ulteriori orizzonti di progresso. Bisognava scegliere se perseguire come  fine dell’agire politico l’obiettivo antico, ossia la conquista del potere nazionale – agendo così, anche involontariamente, in favore della reazione – o impegnarsi nella costruzione di una solida democrazia sovranazionale. Qui sta il nucleo che rende il Manifesto, pur con i limiti dovuti alla forma testuale e al contesto storico in cui nacque, un documento ancora attuale nell’era dell’interdipendenza globale e non riducibile a una prospettiva ideologica di parte, nonostante i tentativi fatti in tal senso dai suoi detrattori o dai suoi presunti estimatori. Il federalismo di Rossi, Spinelli e Colorni non era al servizio di un’ideologia né un semplice strumento di ingegneria costituzionale, ma piuttosto la proposta di un’azione politica concreta sul piano sovranazionale per offrire una soluzione ai problemi più urgenti della civiltà contemporanea: la guerra totale, la crisi della democrazia sfociata nei totalitarismi, il disordine economico internazionale che produceva diseguaglianze e miseria.

Un Manifesto perdente, ma ancora vivo. Acribio giudica il Manifesto come «calato dall’alto» e privo di legame col sentire delle masse popolari. Questa polemica funziona in chiave analogica, come critica all’odierna all’Unione europea, ma così facendo sbaglia obiettivo. Si può legittimamente criticare il Manifesto federalista, ma gli sconfitti non possono essere considerati responsabili degli errori dei vincitori. Fuori da una certa mitologia europeista – che strumentalmente si richiama al Manifesto di Ventotene per nascondere dietro a nobili idealità la propria ignavia sul piano dell’azione –, la verità è che i progetti federalisti della Resistenza (che fiorirono un po’ dappertutto in Europa, non solo a Ventotene) risultarono perdenti nell’immediato dopoguerra, quando rinacque un’Europa divisa in Stati sovrani sotto l’egida delle superpotenze e con il beneplacito delle principali forze politiche nazionali. È vero che, nella Dichiarazione Schumann (9 maggio 1950), la federazione europea restò pur sempre il fine ultimo, ma venne rinviata a un futuro imprecisato, e affidata al metodo funzionalista. Da prospettiva federalista, l’Unione europea attuale non è quindi l’Europa sognata a Ventotene da Rossi, Spinelli e Colorni, ma solo una figlia ingrata dei progetti federalisti della Resistenza che, come tali, non hanno ancora potuto attuarsi e invece potrebbero costituire la chiave di volta per la riforma democratica dell’Unione.

Acribio chiude la sua lettera chiedendo agli interlocutori di tener conto delle sue critiche. Faccio mio quest’auspicio, sperando che internazionalisti e federalisti tornino a parlarsi. Forse è davvero giunto un nuovo kairos, un “tempo opportuno” per l’azione, in cui riprendere il filo di dialoghi interrotti, prima che ri-vincano i nemici comuni: il nazionalismo, i totalitarismi, la guerra.

 

[A partire da questi nuclei di riflessione, il prossimo numero del "Mulino" (n. 4/2019), ospiterà un approfondimento sul "Manifesto di Ventotene", sempre a firma di Antonella Braga: sul contesto storico in cui nacque, sulla sua ricezione nel corso del tempo, sulla sua attualità politica.]