C’è chi sta seduto e si gode lo spettacolo come in una sala cinematografica e c’è chi si sdraia sul pavimento come fosse sotto un cielo di stelle. C’è chi si muove senza tregua come se temesse di perdersi un’inquadratura e c’è chi è preda della selfiemania. Ma nessuno di loro si accorge, poiché lo sguardo è rivolto alle gigantesche immagini proiettate sui muri o verso se stessi, che, qualunque cosa stia facendo, è diventato lui stesso un personaggio nella tela collettiva che riporta in vita, nell’estate 2019, i quadri dipinti da Van Gogh un secolo e mezzo fa, trasformandoli in una “festa mobile”. Le chiamano “expositions immersives”, perché il pubblico si immerge totalmente dentro le opere d’arte convertite in immagini animate e musica dalla tecnologia digitale. Expo che sono ormai un caso a parte sulla scena artistica sovraffollata di Parigi. Sta succedendo da un anno nell’11° arrondissement, all’interno del grande spazio che fu la fonderia Plichon, in attività dal 1835. Dall’aprile 2018 è diventato l’Atelier des Lumières: prima mostra dedicata a Gustav Klimt, poi dal febbraio scorso e fino alla fine dell’anno una doppia esposizione su “Van Gogh, La nuit étoilée” e il “Japon revé, images du monde flottant”, per scoprire le sconcertanti connessioni tra mondi apparentemente lontanissimi.

Il grande successo di pubblico dell’Atelier des Lumières, uno spazio aperto 7 giorni su 7, ne ha fatto in pochi mesi il primo centro di arte digitale di Parigi, con inevitabili conseguenze nel quartiere un tempo operaio: afflusso record di turisti, proliferazione di luoghi di ritrovo e corrispondente impennata delle quotazioni degli immobili. Inventore del nuovo spazio è il maggiore operatore privato francese nella gestione di monumenti, musei e centri d’arte, dal 2012 protagonista anche della scena multimediale e non solo in Francia, la fondazione “Culturespaces”, creata e presieduta da Bruno Monnier. La fondazione cercava da tempo a Parigi un luogo connotato da una storia e un’identità per proporre al grande pubblico un modello innovativo di esperienza emozionale, capace di far scoprire in modo diverso i grandi artisti. Curiosamente la realizzazione delle “expositions immersives” è stata affidata a una équipe tutta italiana: Gianfranco Iannuzzi, direttore artistico, progettista di creazioni multimediali; Renato Gatto, direttore dell’Accademia Teatrale Veneta e docente di teatro a Venezia; Massimiliano Siccardi, artista multimediale ed esperto di immagini animate integrate in spettacoli artistici e teatrali; infine Luca Longobardi, compositore e pianista che ha scelto, e talvolta firmato, la colonna sonora.

Certo non è operazione banale coordinare, in uno spazio vuoto di 3.300 metri quadrati di superficie per un’altezza di 10 metri, 140 proiettori ad alta definizione e 50 altoparlanti, per creare un flusso ininterrotto di immagini e suoni che non si limita alla proiezione ingigantita delle tele, ma le anima e permette al pubblico di entrare al loro interno. L’équipe italiana ha impiegato un anno a realizzare la mostra. La scelta di Van Gogh e della sua immensa produzione artistica nota al grande pubblico ha consentito di trasformare i paesaggi soleggiati del Midi, le esplosioni floreali e le notti stellate in un viaggio visuale e sonoro che offre un’esperienza emotiva totalmente diversa dalla visita di un museo.

Lo stesso accade con la mostra dedicata al Giappone sognato, rivelatrice delle connessioni profonde con l’impressionismo. L’intento divulgativo delle “expo immersives” è evidente e lo conferma la presenza dominante di famiglie con bambini, per i quali la dimensione digitale è un linguaggio naturale, che appartiene alla quotidianità. Ma “la tecnologia è sempre un’arma a doppio taglio, permette di realizzare cose meravigliose ma può ostacolare la creatività”, come ha dichiarato il direttore artistico Iannuzzi. “Portare sensorialmente il visitatore dentro il cuore dell’opera d’arte non significa sostituire i musei, ma proporre a ciascuno un approccio personalizzato. Il nostro obiettivo è lasciare al visitatore la libertà di percezione e di interpretazione in uno spazio dove i suoi movimenti e i suoi spostamenti sono parte integrante della mostra stessa”.

Dunque non si tratta solamente di un’operazione con finalità divulgative. Nello spazio dell’Atelier des Lumières succede qualcos’altro, e lo rivelano gli scatti della fotografa italiana Cristiana Thoux, parigina da vent’anni: i visitatori entrano nello spazio artistico e lo alterano con la loro presenza e i loro continui spostamenti, le persone si immergono nelle macchie di colore e ne diventano una variante mobile, le silhouettes degli adulti e dei bambini sono parte integrante dello spettacolo. I visitatori ne sono quasi sempre inconsapevoli perché il loro sguardo è filtrato dai cellulari e dalle macchine fotografiche e non coglie ciò che sta avvenendo, perso nella fascinazione e nelle emozioni che lo spettacolo suscita: in realtà sono essi stessi i protagonisti di un’opera collettiva animata e sempre diversa che va in scena in quel momento nell’antica fonderia Plichon.

[La fotografia che accompagna l'articolo così come quelle raccolte in questa galleria sono di Cristiana Thoux, fotografa valdostana da vent’anni residente a Parigi. © 2019 Cristiana Thoux. Tutti i diritti riservati.]