Bisogna forse tornare ai giorni immediatamente successivi al disastro nucleare di Chernobyl per ricordare una mobilitazione di movimenti di base ambientalisti come quella verificatasi tra i giovani nella prima metà del 2019. In questo caso non c’è stato un singolo evento scatenante. Ma gli andamenti su scala globale e le politiche negazioniste del cambiamento climatico e della crisi ambientale – spesso, anche se non sempre, sostenute da orientamenti politici «sovranisti», a cominciare dagli Stati Uniti di Trump – giustificano gli allarmi. Solo pochi anni fa avremmo detto che il tema ambientale era diventato mainstream e che, anche su scala planetaria, si stava innescando una positiva evoluzione verso la decarbonizzazione e dematerializzazione dell’economia. Ora quel processo pare essersi fermato se non, talora, invertito.

Il cambiamento climatico sta interessando tutti e ogni parte del globo. Alcune comunità soffriranno gli effetti di più prolungati periodi di siccità o di ondate di caldo, mentre altre soffriranno per l’impatto di piogge torrenziali e inondazioni

Il rallentamento del tasso di crescita economica globale dello scorso decennio (che in Italia si è manifestato con una lunga recessione) ha per certi versi spostato in avanti il momento delle decisioni drastiche. Ora però non sembra esserci più molto tempo. Le proiezioni a medio termine ci restituiscono scenari preoccupanti, se non catastrofici.

Il cambiamento climatico sta interessando tutti e ogni parte del globo. Alcune comunità soffriranno gli effetti di più prolungati periodi di siccità o di ondate di caldo, mentre altre soffriranno per l’impatto di piogge torrenziali e inondazioni. Su scala planetaria gli effetti più acuti sono previsti nelle aree più povere e con minori risorse tecnologiche. In Europa saranno le aree mediterranee a sperimentarne le maggiori conseguenze. In Italia, il cambiamento climatico, combinandosi con una condizione (in parte strutturale, in parte determinata dall’attività antropica) di fragilità idrogeologica, potrebbe determinare conseguenze molto pericolose anche per gli insediamenti urbani.

Gli effetti del cambiamento climatico – riscaldamento e frequenza degli eventi estremi – sono stati addirittura più acuti e più ravvicinati delle previsioni scientifiche. Gli interventi di mitigazione e contrasto invece sono stati molto più lenti. Da decenni sappiamo che occorrono due politiche per rallentare e mitigare gli effetti: la drastica riduzione del consumo di combustibili fossili e l’incremento della superficie forestale capace di assorbire il surplus di CO2 (e forse interventi, con tecnologie ancora non testate, per la cattura della CO2 atmosferica: una sfida enorme).

L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), pubblicato lo scorso anno, conferma che per non avere impatti devastanti occorrerebbe non incrementare la temperatura media di oltre 1,5 gradi (oggi siamo a circa 1 grado sopra la media preindustriale). Servirebbe dunque un taglio drastico, se non quasi completo, delle emissioni umane di CO2, pari più o meno al doppio di quello concordato a Parigi nel 2015 (poi non ratificato da vari Paesi, non solo gli Stati Uniti). Ma non stiamo affatto andando in quella direzione.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 3/19, pp. 418-425, è acquistabile qui