Il nostro è un Paese giovane, ma con un futuro denso di incertezze. Un Paese segnato sin dalla sua nascita da una significativa distanza non solo geografica ma anche culturale fra le sue regioni; e che nel suo processo di sviluppo ha visto consolidarsi forti disuguaglianze economiche territoriali. Un Paese con una significativa debolezza dei suoi apparati centrali di governo – nella loro efficienza, nella capacità di garantire ai cittadini servizi pubblici e diritti di cittadinanza comparabili –, dove c’è voluto un secolo per raggiungere nel Mezzogiorno livelli di istruzione elementare simili a quelli del resto d’Italia. Anche per tutto questo, un Paese con lunghe e alterne vicende di contrapposizioni di interessi territoriali.

Nel secondo dopoguerra l’Italia ha provato a unificarsi davvero. Ha puntato a rafforzare l’economia delle sue regioni più deboli, a vantaggio della crescita dell’intero Paese, e a garantire maggiore uniformità fra i suoi cittadini nella fruizione dei grandi servizi, a partire da istruzione e salute. È stato, pur con tutte le sue contraddizioni, il periodo migliore della nostra storia economica: la maggiore coesione sociale e territoriale è andata di pari passo con tassi di crescita mai visti, e che non saranno mai più raggiunti. Certo, quella crescita è stata collegata a condizioni abilitanti storicamente determinate e irripetibili. Tuttavia, non si sfugge: quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva. La stessa identica logica dell’integrazione europea.

Con gli anni Settanta, il «miracolo» è scomparso. E questo ha portato con sé il rinascere di conflitti distributivi: la spinta e i danari per lo sviluppo si sono spostati dall’industrializzazione del Sud alla riconversione del Nord; ma al Mezzogiorno sono stati garantiti trasferimenti compensativi: spesso distorsivi, in un intreccio sempre più negativo fra classi dirigenti politiche nazionali e locali. Con gli anni Novanta, la grande crisi fiscale e la stretta sulla tassazione hanno provocato per la prima volta la nascita di un movimento politico a esplicita base territoriale, fortemente antimeridionale. La Lega ha condizionato le scelte politiche a cavallo del secolo: la sua minaccia politica è stata ad esempio importante per spingere nel 2001 i governi di centrosinistra a una riforma del Titolo V della Costituzione certamente affrettata, e con diversi elementi problematici. E ha contribuito al diffondersi di un pericoloso veleno, una sottocultura in base alla quale l’impiego delle risorse pubbliche è sempre, per definizione, a somma zero: più a te significa sempre meno a me. In questo anche favorita dal progressivo venir meno dei partiti politici nazionali, sedi per propria natura deputate alla composizione di differenti interessi territoriali, e alla loro mediazione in scelte di interesse collettivo. Ancora fino alla fine del primo decennio di questo secolo gli effetti concreti di questo veleno sono stati parziali: certo, con l’esplodere della «questione settentrionale» lo sviluppo del Mezzogiorno è sparito dall’agenda politica. Ma le stesse richieste di «autonomia regionale differenziata» di Lombardia e Veneto sono state bellamente ignorate dai governi Berlusconi 2008-11. Con la grande crisi, però, la situazione è cambiata: le derive già presenti si sono accelerate.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 3/19, pp. 410-417, è acquistabile qui