Che Donald Trump abbia un’idea molto personale di emergenza nazionale lo ha già dimostrato lo scorso settembre, quando minacciò di esercitare i poteri eccezionali per obbligare il “New York Times” a rivelare l’autore di un articolo anonimo dove un membro dello staff presidenziale si era reso colpevole di descrivere la bizzarra gestione della Casa Bianca. Tuttavia, l’idea rimase solo una minaccia.

Analogo avvertimento è stato replicato alla fine del 2018 in occasione dell’approvazione del bilancio federale, quando il Congresso si è rifiutato di accogliere la proposta del presidente di finanziare la costosa costruzione di un muro al confine con il Messico. Visti i precedenti, però, si pensava che anche questa volta si trattasse solo di provocazioni, non foss’altro perché, se è chiaro il fine politico del governo statunitense di realizzare un muro per impedire l’accesso a una parte degli immigrati clandestini e a una parte del traffico di droga, meno chiari sono gli estremi per qualificare tale fine come un’emergenza nazionale.

Eppure, più che in altre occasioni, considerandosi privo di qualsiasi vincolo costituzionale, lo scorso 15 febbraio, Trump ha proclamato lo stato di emergenza nazionale Concerning the Southern Border of the United States, aprendo la strada a poteri assai ampi di normazione emergenziale, in deroga alle leggi vigenti. Altresì, accedendo a risorse finanziarie straordinarie, appunto, per la costruzione del muro. Una conseguenza non da poco, se è vero che tale opera costa circa 8 miliardi di dollari.

Il provvedimento del presidente sembra aver spiazzato anche l’opinione pubblica, e non solo degli Stati Uniti. Il fine politico ovviamente può essere condiviso o meno. Ciò che colpisce, invece, è il metodo: il fatto che un capo di governo operi nell’assoluta noncuranza del democratico confronto con il Congresso, violando – attraverso l’uso distorto dei poteri emergenziali – uno dei principii cardine del costituzionalismo quale la separazione dei poteri, a cui è ispirata anche la procedura di approvazione del bilancio.

A ben vedere, il National Emergencies Act (art. 50 U.S.C. § 1601–1651), che disciplina lo stato di emergenza nazionale, prevede forme di controllo e poteri di revoca in capo al Congresso. Infatti, è vero che tale atto autorizza il presidente a proclamare lo stato di emergenza ogniqualvolta lo ritenga necessario, ma è altrettanto vero che tale dichiarazione debba essere immediatamente comunicata al Congresso che ne verifica l’opportunità almeno ogni sei mesi. Inoltre, in qualsiasi momento, la proposta di un parlamentare può consentire a entrambe le Camere del Congresso di votare la revoca all’emergenza (art. 50 U.S.C. sec. 1622). Ed è proprio in questa disciplina che risiede lo strumento per impedire a Donald Trump di portare avanti una decisione in aperto contrasto con il Congresso.

Certo, è vero che da quando è entrato in vigore il National Emergencies Act, dal 1976 a oggi, la revoca dello stato di emergenza nazionale è avvenuta solo una volta nel 2005 su proposta del deputato californiano George Miller, che contestò la decisione del presidente George Bush, in occasione dell’uragano Katrina, di sospendere i salari dei lavoratori per ridurre i costi e fronteggiare l’emergenza. E che neppure in quell’occasione si giunse a un voto del Congresso: bastò la proposta a spingere lo stesso presidente a revocare l’emergenza. Il voto di revoca, infatti, non è semplice da raggiungere in considerazione delle differenti maggioranze che – come nell’attuale composizione – siedono nelle due Camere del Congresso. Eppure, la storia del costituzionalismo, in generale, e quella dei poteri emergenziali, in particolare, insegnano che sono spesso gli abusi a determinare le trasformazioni più significative di un ordinamento giuridico.

I poteri di eccezione hanno da sempre caratterizzato la storia costituzionale degli Stati Uniti d’America. Nonostante i Founding Fathers, autori della rivoluzione, avessero in un primo momento immaginato l’istituto presidenziale seguendo un modello opposto rispetto a quello della corona britannica – contro la quale avevano lottato e ottenuto l’indipendenza –, pensando a un presidente debole che operasse in ossequio alle previsioni del Congresso, nella prassi il vertice dell’esecutivo svolse da subito un ruolo molto diverso. Sin dalle origini i poteri emergenziali hanno caratterizzato le funzioni del presidente. Salus populi suprema lex esto: e chi meglio del comandante in capo, direttamente legittimato dall’elezione popolare, può svolgere tale nobile fine?

È vero che la Costituzione americana assegna il comando delle forze armate al presidente, ma nel rispetto del principio di separazione dei poteri, all’articolo I, sezione 8, affida al Congresso il potere di “dichiarare guerra, aumentare le tasse e definire gli stanziamenti militari”. Tuttavia, se l’emergenza è interna e non deriva da un conflitto con un altro Paese, non è necessario dichiarare lo stato di guerra. È per tale motivo che sono nati in via di prassi i poteri emergenziali avviati e amministrati dal solo capo dell’esecutivo, con una spesso generica, o talvolta inesistente, autorizzazione legislativa.

Così, nell’estate del 1792, quando i residenti della Pennsylvania, della Virginia e della Carolina iniziarono a opporsi con la forza alla riscossione di una accisa federale sul whisky, il Congresso autorizzò per legge il presidente a emettere un proclama attraverso il quale avrebbe potuto ricorrere alle milizie per contrastare la rivolta. Tale ordine fu emanato dal presidente Washington il 17 agosto 1794, il quale, assumendo il comando delle forze militari, pose fine alla ribellione.

Da allora i presidenti dichiararono l’emergenza ogniqualvolta il Paese lo richiedesse. Basti qui limitarsi a ricordare che Franklin Delano Roosevelt caratterizzò tutto il suo mandato per l’esercizio dei poteri emergenziali. Nel 1933, infatti, Roosevelt dovette far fronte alla Grande depressione iniziata nel 1929. Appena nominato, uno dei suoi primi provvedimenti fu proprio quello di dichiarare lo stato di emergenza. Dopo aver richiesto la convocazione urgente del Congresso e di tutto il governo e aver rilasciato una conferenza stampa spiegando i provvedimenti alla nazione, a 48 ore dal suo insediamento il presidente dichiarò lo stato di emergenza con la celebre Proclamation 2039, il 6 marzo 1933, declaring bank holiday, avviando incisive restrizioni e controlli all’attività bancaria. A seguito della bank holiday, per quattro giorni tutte le banche furono chiuse e tutte le transazioni finanziarie sospese. Dopo tale periodo di chiusura, furono autorizzate a riaprire gli sportelli e ad accedere a prestiti del Tesoro solo le banche ritenute solide da un ispettore ministeriale. Attraverso tale invasiva misura, Roosevelt fu in grado di ristabilire la fiducia dei risparmiatori nel sistema bancario americano, rappresentando la prima azione di avvio del New Deal. Nessun Congresso o tribunale contestò tali misure, ritenute indispensabili per la nazione.

Al contrario, nel 1952, la Corte suprema (caso Youngstown Sheet & Tube Co. v. Sawyer) censurò i poteri emergenziali esercitati dal presidente Truman in occasione della guerra in Corea. Fu contestata la decisione del presidente, privo di autorizzazione del Congresso, di vietare qualsiasi forma di sciopero nel settore della produzione siderurgica, a causa del timore che l’interruzione della produzione avrebbe messo in pericolo la sicurezza nazionale. Il censurato abuso del presidente Truman, analogamente ad altri casi, spinse il Congresso, già nel 1970, a studiare una specifica disciplina dei poteri emergenziali attraverso il citato e vigente National Security Act, che entrò in vigore nel 1976: non a caso dopo la discussa presidenza di Richard Nixon, alla fine della contestata, ma mai dichiarata, guerra in Vietnam nonché del celebre scandalo Watergate.

Alla luce di questa prassi, nonostante i casi di censura o revoca dell’emergenza nazionale rappresentino ancora oggi isolate ipotesi, la gravità della decisione di Trump potrebbe spingere il Congresso, o la Corte suprema, a interrompere l’emergenza. Un’inerzia delle Camere, indipendentemente dalle maggioranze politiche (repubblicana o democratica) che vi prevalgono, o del Giudice supremo, sarebbe un segnale davvero allarmante di svalutazione del principio costituzionale di separazione dei poteri. Inoltre, rappresenterebbe un grave precedente nella storia del Paese, per cui qualsiasi scelta del governo che non troverà il consenso del Congresso potrà essere letta in futuro come un’emergenza nazionale da approvare sempre e comunque.