Il 12 ottobre è partita da San Pedro Sula (Honduras) una carovana di migranti, formata da intere famiglie, con giovani, bambini e neonati, provenienti dal famigerato Triangolo Nord dell’America Centrale (Honduras, Guatemala, El Salvador). Circa settemila persone, secondo la stima dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, si sono messe in marcia con lo slogan “Todos Somos Americanos de Nacimiento” decise ad attraversare migliaia di km attraverso il Messico per raggiungere gli Stati Uniti e chiedere asilo.

Il Triangolo Nord è una delle zone più povere dell’America Latina e una delle più violente al mondo. La migrazione è la risposta a una crescita economica che non è riuscita a essere includente, alla mancanza di opportunità e all’aumento smisurato della violenza e dell’insicurezza. La povertà strutturale, che in Guatemala e Honduras arriva a toccare fra il 60% e il 70% della popolazione, si accompagna a una diseguaglianza estrema, caratterizzata da un’altissima concentrazione di ricchezza: un centroamericano ricco percepisce fra venti e settanta volte più di un centroamericano povero. La migrazione è anche la risposta a un mercato del lavoro inefficiente: si calcola che l’esubero di manodopera sia intorno al 65%, cui si aggiungono inadeguate condizioni di lavoro, bassi salari e il dilagare dell’economia sommersa. Circa la metà dei migranti sono giovani che cercano fortuna negli Stati Uniti, dove il deficit di forza lavoro è coperto per il 38% da immigrati di origine latinoamericana.

La zona del Triangolo Nord è tristemente famosa per la sua violenza cronica. Dopo mezzo secolo segnato dalla violenza politica, in un susseguirsi di guerre civili, colpi di stato e guerriglie, le transizioni democratiche si sono accompagnate all’esplosione della violenza criminale favorita da Stati deboli che hanno fornito il terreno propizio per il radicamento e la complicità con il crimine organizzato. Si tratta di un fenomeno multidimensionale ed endemico, che può dirsi ormai strutturale. Oggi gli Stati del Triangolo Nord sono annoverati, insieme al Messico, fra i primi 10 Paesi al mondo a rischio estremo.

San Pedro Sula, il luogo di partenza della carovana, fino al 2016 compariva nelle statistiche come la seconda città più pericolosa del pianeta. Oggi mantiene un tasso di 51.18 omicidi su 100 mila abitanti. L’indice globale di omicidi è di circa 6 ogni 100.000 abitanti, con percentuali che fra il 2005 e il 2015 sono diminuite in tutto il mondo, eccetto che nella regione latinoamericana.

La complessa situazione migratoria si riferisce alla relazione fra il Messico, gli Stati Uniti e il Triangolo Nord. Geograficamente, il Messico occupa una difficile posizione di Paese ponte fra il nord e il centro: un immenso territorio che per gli Stati Uniti funziona come una grande regione di frontiera, una sorta di Paese “cuscinetto” di fronte alle minacce provenienti dalla regione centrale.

La frontiera sud del Messico, che è stata anche definita una terza frontiera degli Stati Uniti, ha suscitato meno attenzione nel dibattito internazionale e negli studi accademici. Si tratta di 1.149 Km di confine, di cui 956 con il Guatemala e 193 con il Belize. Il Messico ha scoperto la sua frontiera sud a partire dagli anni Ottanta, quando i rifugiati guatemaltechi che fuggivano dalla guerra  iniziarono a riversarsi nel Paese chiedendo asilo politico. Nel 1982, in seguito all’impatto del conflitto centroamericano, il presidente Miguel De la Madrid affermò che il Messico era un “Paese di frontiera”: si iniziò così a profilare un tipo di relazione distinta con i vicini meridionali e prese forza il concetto di sicurezza nazionale legato al confine.

Da allora la questione migratoria è diventata più complicata: il Messico, da Paese storicamente espulsore di migranti, è diventato anche Paese ricettore e di transito. La frontiera Messico-Guatemala si è andata configurando come una frontiera porosa dove sono cresciute la migrazione illegale di transito, la presenza di lavoratori agricoli, spesso informali, e ogni genere di attività illecite fra cui la tratta di migranti.

Se con la fine della Guerra Fredda il valore strategico del territorio messicano per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti sembrava aver perso d’importanza, il tema è ritornato preponderante dopo l’attentato dell’11 settembre e, come conseguenza del vertiginoso aumento del narcotraffico, tanto in Messico, soprattutto negli Stati settentrionale di confine, quanto in Centro America, dove si è originata una pericolosa simbiosi criminale nella frontiera Messico-Guatemala. Entrambe le frontiere messicane sono così diventate un tema prioritario per la sicurezza nazionale dei governi del Messico e degli Stati Uniti. Nelle due frontiere si ripropongono le medesime logiche. I migranti illegali sono sottoposti a ogni genere di violenza: estorsioni e maltrattamenti da parte delle autorità, sequestro da parte di trafficanti di persone, delinquenti e narcotrafficanti, violazioni, assassini e sparizioni. Il traffico degli illegali, perpetrato dai denominati polleros o coyotes, con il tempo è diventato un’attività più redditizia che ha trovato una fortunata convergenza con i gruppi dediti ai traffici di droga, con la conseguente escalation della violenza. 

Questa situazione è ormai da anni riconosciuta come vera e propria “crisi dei diritti umani”.

A partire dal 2001, si sono intensificati i programmi congiunti fra i governi del Messico e degli Stati Uniti per rendere sicure le frontiere comuni attraverso la cooperazione istituzionale, che spesso ha incluso anche il confine con il Guatemala.

Nel 2014, dopo la dichiarazione degli Stati Uniti di crisi umanitaria al confine con il Messico a causa della migrazione infantile, per lo più minorenni centroamericani non accompagnati, il presidente messicano Peña Nieto annunciò la creazione del Programa Frontera Sur. Il prevalere di una visione che ha criminalizzato la migrazione illegale ha determinato un aumento degli abusi e delle estorsioni delle autorità migratorie, delle detenzioni (incrementate del 71% fra il 2014 e il 2015) e delle deportazioni che hanno spinto i migranti verso rotte ancora più pericolose. Le carovane sarebbero anche il risultato tangibile del susseguirsi di politiche migratorie errate. La crisi dei bambini migranti stimolò anche la cooperazione fra i paesi del Triangolo Nord e gli Stati Uniti per implementare programmi di sviluppo congiunti.

Con l’arrivo di Trump, la sicurezza nazionale, considerata una priorità del Paese, si è prevalentemente focalizzata sulla frontiere. Nell’ ordine esecutivo Border Security and Immigration, emanato pochi giorni dopo il suo insediamento, il confine meridionale è stato dichiarato il pericolo principale per la sicurezza e gli immigrati sono stati additati come soggetti pericolosi per la nazione. L’ordine ha stabilito l’immediata costruzione del muro con il confine messicano e il dispiegamento di nuovi agenti di pattuglia frontaliera. La frontiera cessa così di essere considerata positivamente come uno spazio di integrazione e regredisce allo status di territorio di contenzione e di delimitazione fra due Paesi, facendo riemergere quel significato di “fronte” insito in ogni frontiera.

Sin da subito la carovana ha scatenato le ire del presidente Trump che ha minacciato di sospendere gli aiuti ai Paesi centroamericani, di inviare truppe e di chiudere la frontiera con il Messico, con la pretesa che quest’ultimo fermasse l’avanzata prima dell’arrivo al confine statunitense.

Lo scenario futuro resta incerto: il 10 dicembre la maggior parte dei Paesi delle Nazioni unite ha firmato a Marrakech il primo patto intergovernativo mondiale, Pacto Mundial por una Migración Segura, Ordenada y Regularche mira alla collaborazione fra i Paesi  per gestire il fenomeno migratorio in maniera sicura e degna per tutti. Il governo messicano recentemente insediato ha annunciato un cambiamento di strategia in tema di politica migratoria, presentando una sorta di piano Marshall che dovrà essere negoziato con gli Stati Uniti. Sfortunatamente, proprio gli Stati Uniti e una decina di altri Paesi hanno rotto gli accordi precedenti, retrocedendo dal patto in nome della sovranità nazionale. Un gesto simbolico, in quanto non si tratta di un accordo vincolante che lede la prerogativa degli Stati in materia migratoria.