Ormai da tempo il personaggio dell’anno di “Time” sottolinea la sensibilità di uno degli organi d’informazione più noto al mondo per un fenomeno sociale, un tema, un evento.

Quest’anno sta suscitando particolare clamore l’attribuzione ad alcuni giornalisti minacciati e, soprattutto, il fatto che fra questi ci sia una persona scomparsa. Non era mai successo. Non era mai successo che il designato – o almeno uno dei designati – fosse morto; non era mai successo che dei giornalisti designassero altri giornalisti. 

Una decisione, inaspettata, che è possibile interpretare in vario modo. Come una sfida; anzi una doppia sfida, ai regimi autoritari, dove scema di giorno in giorno la libertà d’espressione; ma anche alle istituzioni politiche di molte consolidate democrazie, sempre più ostentatamente distanti dal giornalismo. A partire dagli Stati Uniti, dove la guerra del presidente Trump ai media e al giornalismo è quotidiana: un continuo stillicidio di offese, denigrazioni e delegittimazioni, soprattutto a mezzo social, come non si era mai visto prima. Certamente i rapporti fra media e politica hanno conosciuto in passato momenti difficili e tesi, ma senza che mai si raggiungessero picchi di tale – reciproco – disprezzo.

Ma la doppia sfida è al contempo un doppio grido di dolore che si alza da un mondo – quello giornalistico – da anni scivolato in una crisi che ne sta minando addirittura, ad avviso di molti osservatori, la plurisecolare legittimità. Un grido di dolore che ha colto nell’alto valore simbolico di questa designazione il momento giusto per liberarsi.

Attraverso il personaggio dell’anno si accentuano tendenze e fenomeni spesso definiti epocali. Nel 2006 fu indicato quale personaggio dell’anno YOU, cioè tutti noi che – grazie alle nuove tecnologie – siamo i maggiori produttori dei contenuti circolanti in rete; nel 2011 il manifestante delle primavere arabe; nel 2014 coloro che combattono il virus Ebola; infine, l’anno scorso le donne che hanno rotto il silenzio sulle molestie sessuali. Non appare per niente casuale che soggetti collettivi facciano capolino sempre più spesso in tali nomination, quasi a voler smentire quella tendenza alla personalizzazione solitamente attribuita alle semplificazioni giornalistiche. Nella decisione dell’altro giorno, poi, è chiara la volontà di accentuare l’importanza del giornalismo quale istituzione centrale per garantire la tenuta di qualsiasi sistema sociale, grazie alla sua funzione di segnalazione e regolazione dell’interesse pubblico, attraverso la rilevanza e la ricorrenza dei temi trattati, nonché la condivisione degli stessi fra individui altrimenti appartenenti a mondi sociali con poche occasioni d’incontro e di confronto.

Tuttavia, diventa sempre più difficile stabilire cosa sia l’interesse pubblico, cosa sia rilevante e, soprattutto, favorire la condivisione in un sistema dei media sempre più frammentato. Proprio queste problematicità sono fra le cause delle difficoltà riscontrabili dal giornalismo. Difficoltà su cui ci si sta interrogando da anni, soprattutto nel mondo anglosassone e meno nel nostro Paese, per capire se sia ancora possibile riconoscere la legittimità del giornalismo di farsi interprete dell’opinione pubblica, in un mondo dove i luoghi d’incontro e le forme di scambio fra emittenti e riceventi si diversificano e moltiplicano con una rapidità inimmaginabile soltanto qualche anno fa.

Dunque, accendere l’attenzione sui giornalisti, sebbene su giornalisti minacciati fino alla morte, vuol dire accenderla anche sull’imprescindibilità del giornalismo. Anzi, proprio l’accentuazione di come cresca progressivamente, anno dopo anno, il numero di giornalisti uccisi, intimiditi, provocati e costretti a subire continue angherie – e il nostro Paese in questa mortificante classifica è ben piazzato! – conferma l’importanza del giornalismo. È come se si volesse ricordare che se il loro lavoro fosse davvero irrilevante, non ci sarebbe bisogno di eliminarli o ridurli al silenzio. Paradossalmente, proprio la loro soppressione ne ribadisce la centralità.

Come chi parla a suocera perché nuora intenda, con la sua scelta la redazione di “Time” ammonisce terroristi e leader autoritari, ma anche quanti – negli Stati Uniti come in Europa (e per quanto direttamente ci riguarda in Italia con sempre maggiore determinazione e acrimonia) – continuamente minano le ragioni del giornalismo, descrivendo chi professionalmente si occupa d’informazione come nemici del popolo e ribadendo la loro progressiva irrilevanza attraverso il ricorso a  una comunicazione tanto immediata e disintermediata quanto ossessivamente martellante.

Evidenziando la scomparsa delle voci scomode “Time” dice a tutto il mondo: attenzione, non è soltanto l’eliminazione fisica a indebolire la civile convivenza fra le persone, la necessaria dialettica fra le idee, il riconoscimento della libertà d’informazione come principio cardine delle nostre democrazie. Esiste – e si sta facendo strada – una soppressione più sottile, ma non meno pericolosa, che ci coinvolge tutti, rappresentata dalla convinzione che dei giornalisti si possa fare a meno, che la disintermediazione – riscontrabile dietro la potenziale orizzontalità della comunicazione digitale – possa rappresentare l’eldorado prossimo venturo, favorendo il progressivo quanto inesorabile ridimensionamento del mercato dell’informazione. Evidente soprattutto nelle economie più solide, dove le risorse si stanno spostando a vantaggio di pochi big player, riducendo lo spazio d’azione delle principali aziende giornalistiche, con la conseguenza che il binomio storico fra consolidamento della democrazia e successo commerciale della stampa si ribalti nel progressivo rimpicciolimento di entrambi. Un avvitamento che trascina con sé anche la fiducia nel giornalismo quale istituzione preposta a verificare e validare la veridicità dei fatti e a formulare descrizioni e interpretazioni consolidate di quanto accade nel mondo.

In definitiva, con questa designazione “Time” ci dice: “noi ci siamo, non temiamo soltanto la morte violenta, ma ancor di più una lenta agonia, che sarebbe insopportabile non soltanto per chi vive di giornalismo”; sottolinea come la violenza verso alcuni coraggiosi e impavidi rappresentanti della categoria debba ricordarci anche i rischi insiti in una meno traumatica, ma altrettanto grave, perdita di senso per tutto il giornalismo.