Forse è ora di iniziare a chiederselo: e se non durasse? E se fossimo nella stessa situazione di Joseph Roth che racconta l’impero austro-ungarico un attimo prima del crollo? O di quegli analisti così esperti delle dinamiche interne del Cremlino da pensare che l’impero sovietico che avevano studiato per decenni fosse una costante della storia e non invece un oggetto destinato a inevitabile decadimento? Dopo aver rimosso per anni l’ipotesi di trovarsi dal lato sbagliato della storia, i difensori del liberalismo e delle sue declinazioni istituzionali democratiche – l’Unione europea su tutte – sono entrati in una fase di cupio dissolvi.

Basta una ricerca su Google per scoprire che ogni mese una tra le più prestigiose riviste di dibattito – «Foreign Affairs», «Foreign Policy», «The Atlantic» – pubblica un articolo o una copertina che declina in vario modo il concetto «Democracy is dying». In questa analisi quasi compiaciuta – e in fondo auto-assolutoria – dell’avanzata dei movimenti populisti illiberali manca però quasi sempre la stima delle possibili ripercussioni concrete delle crepe nelle fondamenta valoriali delle nostre democrazie. È quel fenomeno di rimozione che ha reso impossibile prevedere la Brexit, l’elezione di Donald Trump, il governo Lega - 5 Stelle. Certi scenari come l’uscita dell’Italia dall’euro sono relegati a libri come quello mascherato da romanzo distopico del giornalista Sergio Rizzo (02.02.2020. La notte in cui uscimmo dall’euro, Feltrinelli, 2018).

Questa incapacità di proiettarsi in uno scenario alternativo, in cui la caducità inevitabile delle costruzioni umane implichi la fine del nostro mondo come lo conosciamo, ha una possibile, banale spiegazione: gli analisti occidentali, soprattutto se europei, appartengono a una generazione che ha vissuto l’Europa e il progetto comunitario come una costante della propria vita e della politica, un processo in continua evoluzione (o involuzione) ma inevitabile, necessario. Abbiamo introdotto una dimensione teleologica nella politica che trasformava ogni spinta contraria, ogni tentazione illiberale o nazionalista, in un ostacolo da rimuovere dal binario unico dell’integrazione europea e dalla tensione livellatrice della globalizzazione il cui motore erano i valori liberali. A forza di citarlo senza averlo letto, tutti si sono convinti di quella semplificazione da bar che riduce il libro di Francis Fukuyama su La fine della storia alla professione di fede nella mancanza di alternative alla democrazia liberale e alla previsione che nessun evento avrebbe mai potuto scalfire tale supremazia.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 5/18, pp. 812-820, è acquistabile qui]