Donne, millennials e progressiste: la sinistra all’assalto del Partito democratico. Mai come in quest’ultimo anno le primarie del Partito democratico – per le mid-term elections, per le corse per i Parlamenti statali e per la carica di governatore – sono state terreno di scontro politico e ideologico tra due versioni drasticamente differenti di sinistra, un confronto che mette in questione la natura stessa della politica americana.

La campagna di Sanders, inizialmente snobbata e ritenuta irrealistica – quando mai un socialista avrebbe avuto chance in America? – è durata ben oltre la sfida con Clinton e, complice anche la clamorosa vittoria di Trump, ha gettato le basi per una nuova generazione di candidati pronti a sfidare l’establishment democratico.

Epicentro di questa battaglia è lo Stato di New York, che è per molti versi simbolico – era il collegio di Hillary Clinton e roccaforte dei liberals che da decenni privilegiano il rapporto con Wall Street. Uno Stato che alle primarie del 2016 aveva votato convintamente per Clinton. Eppure, subito prima dell’estate, l’America si svegliò incredula davanti alla vittoria, nelle primarie per il Congresso Federale, della giovane attivista socialista Alexandria Ocasio-Cortez: capace di sconfiggere Joe Crowley, uno dei maggiorenti del Partito democratico, rappresentante dello Stato di New York al Congresso dal 1999. Crowley, una figura di potere nazionale, quarto nella gerarchia democratica al Congresso, e vero e proprio bramino del Queens, aveva dalla sua l’intera macchina del Partito e una incredibile disparità di risorse – in un rapporto di circa 10 a 1 a suo vantaggio – e ciò nonostante fu sonoramente battuto da Ocasio-Cortez. Questo ha reso le primarie per il Congresso dello Stato, in programma a metà settembre, da evento normalmente ignorato dalla stampa ad appuntamento di portata nazionale.

Le primarie locali in effetti ripropongono uno schema simile a quello che ha visto il trionfo di Alexandria Ocasio-Cortez: donne, millennials, supportate da movimenti grassroots, sono a caccia dello scalpo eccellente tra i dirigenti di lungo corso dei democratici. A cominciare, naturalmente, da Cynthia Nixon, l’attrice di Sex and the City che sfiderà il potentissimo Andrew Cuomo, seguita poi dalla 27enne socialista Julia Salazar e dalla più moderata 32enne Alessandra Biaggi. Non tutte sono membri del Dsa – il gruppo socialista in continua espansione che contende il potere ai liberals democratici – ma tutte si riconoscono in un'agenda progressista e fortemente anti-establishment, in aperto conflitto con i candidati incumbent o comunque scelti dal Partito.

Certo, la situazione nell’Empire State è particolare, con una maggioranza repubblicana tenuta in piedi dai democratici mainstream, tra cui Klein, il potente senatore sfidato dalla Biaggi, in cambio di posizioni di potere. Sarebbe però un errore ridurre tutto a un fatto locale. Basta guardarsi intorno per rendersene conto: in Massachusetts, altra roccaforte dei liberals, Ayanna Pressley ha sconfitto nelle primarie per il Congresso Michael Capuano, un veterano del Partito con alle spalle 10 legislature, e in Georgia Stacey Abrams punta a diventare la prima governatrice di colore degli Stati Uniti sfidando un tabù tra i più consolidati: cioè che per vincere in uno Stato del Sud i democratici debbano affidarsi a un candidato uomo, bianco e con posizioni ultra-moderate – lo schema Bill Clinton, in effetti.

Nonostante le differenze tra le candidature siano piuttosto ampie, quello che le accomuna è il rigetto del centrismo liberal che ha caratterizzato i democratici dagli anni Novanta in avanti, a cui viene contrapposta un’idea di Partito attento ai bisogni dei più deboli, della working class, che dice no agli accordi con i repubblicani e ai compromessi sui diritti.

Le ramificazioni di questo scontro vanno, in parte, anche oltre il confine della sinistra. Il dato su cui riflettere è come i movimenti sociali stiano sconvolgendo il panorama politico tout court, per decenni ostaggio di Wall Street e della logica del candidato che vince grazie ai fondi messi a disposizione dai grandi donors, tutti, ovviamente, molto conservatori e difensori dello status quo. Prima la grande crisi ha generato Occupy, dai più sottostimato come movimento folcloristico ma che poi ha innervato la candidatura di Sanders e dato vita a una vivacissima campagna politico-culturale con i vari "Jacobin", Chapo Trap House, "The New Inquiry", in grado di mettere in crisi l’egemonia culturale del pensiero mainstream. Poi, la vittoria di Trump, cui i democratici tradizionali hanno reagito con una assurda campagna anti-russa, mentre la sinistra si è mobilitata sia in piazza (ad esempio con le varie ondate di scioperi degli insegnanti) sia con proposte di policy sempre più progressiste e capaci di attirare consenso. Sia chiaro: quello cui stiamo assistendo non è certo la capitolazione dell’establishment o la fine del centrismo liberal – ancora molto forte e radicato – ma quantomeno una competizione a sinistra su come meglio fronteggiare l’avanzata della destra reazionaria alla Trump.

Un dibattito completamente assente in altri Paesi, tra cui l’Italia, dove anche una sola blanda critica a Macron viene tacciata di collusione col nemico e dove una riflessione sul futuro della sinistra viene per ora lasciata alla discussione accademica invece che alla lotta politica.

 

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