L’8 aprile 2018 Viktor Orbán è stato trionfalmente rieletto primo ministro d’Ungheria. Il suo partito, Fidesz, ha ottenuto quasi la metà dei voti popolari e oltre i due terzi dei seggi parlamentari. Le deboli e al loro interno frammentate opposizioni di centrosinistra (socialisti, liberali, ecologisti) e di destra (Jobbik) sono uscite politicamente annientate dalla battaglia elettorale. Nelle settimane successive al voto, tutti i principali esponenti dei partiti di opposizione si sono dimessi e l’oligarca Lajos Simicska, ex tesoriere del partito di Orbán divenuto negli ultimi anni uno dei suoi critici più feroci, ha attuato un drastico ridimensionamento del suo impero mediatico. Secondo alcuni, per non disperdere energie e denaro in un momento difficile. Secondo altri, per interessi inconfessabili che hanno reso possibile un riavvicinamento fra vecchi sodali. Il risultato tuttavia non cambia: la propaganda governativa inonda le case e gli smartphone della popolazione, mentre gli organi di opposizione (o quantomeno indipendenti rispetto ai finanziamenti governativi) sono ridotti ai minimi termini e il vasto elettorato ostile al primo ministro assomiglia sempre più a un esercito in rotta, privo di comandanti, strateghi, risorse e fiducia nel futuro.

Nel frattempo, si prepara dopo decenni di attività a lasciare l’Ungheria quello che era stato un sostenitore del giovane anticomunista filo-occidentale Orbán, per diventarne in seguito il più acerrimo nemico: il finanziere George Soros. Poche settimane dopo le elezioni e alla vigilia di un provvedimento legislativo che renderà assai difficile la vita delle organizzazioni non governative almeno parzialmente finanziate dall’estero, il network Open Society Foundations ha annunciato «per motivi di sicurezza» la chiusura delle operazioni internazionali dalla sede di Budapest e il trasferimento degli uffici a Berlino.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 3/18, pp. 392-400 è acquistabile qui]