Nel suo discorso di investitura al Senato, il nuovo Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato che «se populismo è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente» e se «antisistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema, che rimuova vecchi privilegi ed incrostazioni di potere» sia la Lega che il M5S «meritano entrambe queste qualificazioni».

In merito alla prima qualifica, la conclusione è abbastanza semplice e immediata: tanto la Lega quanto il M5S rappresentano casi paradigmatici di populismo. Cioè emerge in modo inequivocabile sia che lo si consideri, seguendo Marco Tarchi, una «mentalità», oppure «un’ideologia dal cuore sottile» sulla base della definizione suggerita da Cas Mudde, poiché l’evocazione primato del «popolo» e della sua sovranità come fondamento dell’azione politica costituisce un tratto determinante (e caratterizzante) dei due partiti. Piuttosto, data la poliedricità del fenomeno populista, Lega e il M5S rappresentano diverse varietà, o tipi, di populismo. Infatti, laddove la prima è meglio intesa come «destra radicale populista», i pentastellati rappresentano, come sottolinea sempre Tarchi, un caso «di populismo allo stato puro».

I partiti populisti sono da considerarsi come antisistema proprio per il loro registro verbale, per la retorica che utilizzano nei confronti della democrazia liberal-rappresentativa La seconda qualifica rivendicata da Conte, ovvero l’attributo di «antisistema», rappresenta un punto decisamente più controverso. Il concetto classico di partito antisistema è legato al magistrale Parties and Party Systems di Giovanni Sartori, che ne propone la seguente definizione: «un partito può essere definito antisistema ogniqualvolta mini la legittimità del regime al quale si oppone». Però, della famosa nozione è stato fatto spesso fatto un uso improprio da parte degli scienziati politici, in particolare trattando «antisistema» come sinonimo di «anti-democratico». Infatti, sebbene i casi storici più famosi ricondotti al novero delle formazioni anti-sistema sono stati il Pci e il Msi, Sartori stesso ha più volte ribadito che altri formazioni, ad esempio i partiti secessionisti, i poujadisti e qualunquisti, ma anche i gaullisti nella IV Repubblica francese, fossero tali in virtù dell’impatto delegittimante della loro propaganda. Cioè è possibile perché il termine «sistema» non corrisponde a «democrazia», ma piuttosto si riferisce a qualcosa di «neutro» e «relativo», ovvero il regime. Allo stesso tempo, «anti-sistema» non è sinonimo di «anti-democratico».Quest’ultimo punto è particolarmente rilevante nel mondo contemporaneo, poiché i principali attori che fanno della propria raison d'être la de-legittimazione dello status quo, in particolare di quello politico, sono esattamente i partiti populisti. Più nello specifico, seguendo le indicazioni di Sartori, i partiti populisti sono da considerarsi come antisistema proprio per il loro registro verbale, per la retorica che utilizzano nei confronti della democrazia liberal-rappresentativa. Da un lato, avversano le istituzioni rappresentative che «interferiscono» con la piena e diretta espressione della «volontà generale» del popolo, ad esempio i partiti, il Parlamento, la magistratura, l’Unione europea; dall’altro, l’enfasi sulla sovranità del popolo e l’attribuzione di una superiorità morale a quest’ultimo, porta a una critica alla componente liberale delle odierne democrazie, in particolare il pluralismo e la tutela delle minoranze. Insomma, critica alla democrazia liberal-rappresentativa, ma difesa della «vera» democrazia, quella diretta e «non mediata».L’enfasi sulla sovranità del popolo e l’attribuzione di una superiorità morale a quest’ultimo, porta a una critica alla componente liberale delle odierne democrazie, in particolare il pluralismo e la tutela delle minoranze La discussione finora sembrerebbe indicare come il governo M5S-Lega sia, come ha sostenuto Conte, un vero e proprio «governo anti-sistema». Ma è opportuno considerarlo come effettivamente tale? A questo proposito, come ho discusso più estensivamente altrove, il problema di fondo è da rintracciare proprio nel fatto che la propaganda, ovvero la retorica verbale, di un partito spesso «non corrisponda» ad un’analoga postura antagonista e non cooperativa da un punto di vista «comportamentale». Infatti, la scena europea ci suggerisce che nella stragrande maggioranza dei casi in cui i partiti populisti sono andati al governo non abbiano smesso di articolare una retorica delegittimante ma, allo stesso tempo, si sono variamente «integrati» in un sistema di relazioni cooperative, ad esempio a livello nazionale con i tanto contestati partiti mainstream (ad esempio in governi di coalizione), oppure attraverso interazioni cooperative (e anche remissive) con l’Unione europea (come nel caso di Syriza in Grecia dopo il referendum del 2015).

Ed è proprio questo il punto: se si considera anche il comportamento effettivo adottato nel sistema partitico – a differenza di quanto porterebbe a concludere la prospettiva di Sartori – chi scrive ha sottolineato come la Lega è stata sicuramente anti-sistema nella fase finale della Prima Repubblica e nel periodo secessionista: in entrambi i casi l’opposizione a parole nei confronti dello status quo era accompagnata da una postura chiaramente antagonista e non-cooperativa nei confronti del medesimo. Invece, a partire dagli anni Duemila, la Lega è rimasta stabilmente disponibile alla collaborazione con le forze politiche del centrodestra anche al governo, cosa che non è accaduta a seguito delle elezioni del 4 marzo per ragioni esclusivamente numeriche (di seggi) e non per una rinnovata postura non-cooperativa. Il M5S, dal canto suo, è stato inequivocabilmente anti-sistema a «parole» e nei «fatti» dalla sua fondazione fino alle elezioni politiche di quest’anno. Tuttavia, pur mantenendo un chiaro «nocciolo» populista, il partito guidato da Di Maio ha abbandonato il precedente rifiuto di principio alla cooperazione con gli altri partiti politici, evento indicato non solo dalla nascita del governo giallo-verde, ma anche in particolare ai ripetuti tentativi di formare un esecutivo con il Pd e dalla più complessiva ricerca al dialogo.

A conferma di questa interpretazione, è interessante notare come nonostante i toni aggressivi della campagna elettorale, il neonato esecutivo abbia già iniziato a ridefinire le linee d’azione concrete che intende perseguire (come evidenziato dalla «moderazione» del contratto del «governo del cambiamento»). A parità di condizioni, quindi, il neonato governo M5S-Lega è da intendersi come una coalizione tra due partiti populisti che sono già integrati in relazioni cooperative a livello di «sistema», pur non condividendone i valori di fondo (a livello ideologico) e contestandolo a voce grossa (a livello di retorica). Il governo M5S-Lega si batterà per riformare alcune politiche pubbliche, seppur rilevanti, a livello nazionale e sovranazionale, soprattutto ai fini di rivendicazione simbolica – e la vicenda del rifiuto di Salvini all’attracco nei porti italiani della nave Aquarius ne è un primo segnale. Tuttavia, è già chiaro fin d’ora che i pilastri dello status quo nazionale (istituzioni liberal-rappresentative) e sovranazionale (Unione europea, moneta unica) sebbene contestati (anche vigorosamente) «a parole», non saranno minacciati da azioni di governo concrete finalizzate alla trasformazione radicale dell’ordine esistente.