Tra il ’92 e il ’94 si è consumata l’agonia di quella che uno storico illustre come Pietro Scoppola ha chiamato «la Repubblica dei partiti». In quella Repubblica, secondo opinione comune, i partiti esercitavano un’influenza decisiva sullo Stato. Semplificando alquanto: ai partiti si era trasferito l’esercizio della sovranità, prima spettante al Parlamento e all’esecutivo che ne godeva la fiducia. Dai partiti dipendevano il Parlamento, l’esecutivo e, a cascata, le amministrazioni pubbliche e una larga porzione dell’attività economica, tramite le partecipazioni statali. La primazia dei partiti non era una peculiarità italiana. L’aveva scoperta Duverger negli anni Cinquanta. Tutte le democrazie occidentali nel dopoguerra si erano affidate, in varia misura, ai partiti. Peculiari dell’Italia erano sia l’articolazione del sistema dei partiti, che fuoriusciva dalle contese elettorali, sia la laboriosità delle interazioni intra e infrapartitiche. Il che rendeva piuttosto instabile qualsiasi maggioranza di governo. Che fosse instabile anche l’azione di governo, come molti avrebbero sostenuto più tardi, non è materia di verità storica, ma di interpretazione, se non di fede. Dopotutto i partiti che sostenevano e presidiavano l’esecutivo erano sempre gli stessi e il personale ministeriale variava poco quando i governi si ricostituivano. Tale continuità è diventata a un certo momento una colpa, quando gli osservatori, molti in sintonia coi partiti stabilmente all’opposizione, notarono come in Italia non si verificasse l’alternanza, prerogativa delle democrazie occidentali definite all’occasione virtuose.

Un partito era chiaramente dominante: la Dc. Mentre sul secondo partito, il Pci, gravava un pesante dubbio di legittimità democratica: quella che Leopoldo Elia ha chiamato la conventio ad excludendum (L. Elia, Forme di governo, in Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Giuffrè, 1969), confermata addirittura sul piano internazionale. L’altro vizio presto attribuito ai partiti italiani era una patologica invasività nei confronti delle pubbliche amministrazioni e delle partecipazioni statali.

L’alternanza, come ha mostrato Arendt Lijphardt, non è un principio irrinunciabile per i regimi democratici, né segno di particolare virtuosità, come sosterranno i suoi aedi. Pure sulla conventio ad excludendum qualche precisazione si impone. C’era, pure sul piano simbolico, ed era ricca di effetti. Ma giustamente Giorgio Galli additava come motivo della mancata alternanza (di cui lui si rammaricava) non tanto l’ideologia di cui il Pci era portatore e i suoi legami internazionali, quanto il divario elettorale che lo separava dalla Dc (cfr. A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, 1984, trad. it. Il Mulino, 2014). La Dc vinceva le elezioni. Qualcuno sosteneva che le vincesse truccandole, o con le sue pratiche clientelari e assistenziali, ma le vinceva. D’altro canto, l’esclusione non era poi troppo drastica: il Pci governava una parte non secondaria dei comuni e delle province, nonché, dopo il 1970, pure delle regioni, mentre il suo peso in Parlamento era consistente. Governava, grazie alla sua poderosa organizzazione, un ampio segmento di società italiana ed era compartecipe, per via indiretta, del governo del Paese. E fu una componente essenziale del regime democratico. Se la democrazia, come ha detto Schattschneider, sta non «nei» partiti, ma «tra» i partiti, fu anche per la trazione esercitata dal Pci che le componenti conservatrici e anche retrograde della Dc non ebbero la meglio (E.E. Schattschneider, Party government, Holt, Rinehart and Winston, 1942).

 

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