Un voto per riavvicinare le periferie. «Non si accetta moneta locale», recita un cartello alla cassa del bar. Non è più possibile pagare in dinari tunisini all’interno dell’aeroporto internazionale di Tunisi, neppure per bere un tè. Una novità che rivela in modo evidente la quotidianità di una crisi economica galoppante. Nel 2011 la rivolta popolare contro il regime di Ben Ali scoppiò soprattutto per una situazione sociale ed economica insostenibile. A sette anni di distanza, il 2018 è iniziato all’insegna di una nuova serie di proteste nel Paese, non certo le prime dopo il cambio di regime, proprio contro quelle condizioni di sofferenza economica e sociale che, invece di essere alleviate con il nuovo corso politico, per molti versi sono andate aggravandosi. La «dignità» che nel 2011 le folle domandarono a gran voce, nelle strade non solo della capitale, non è mai arrivata. La transizione tunisina verso la democrazia che, in Europa e nella stessa Tunisia, è stata definita da molti in termini di successo lascia in realtà sul terreno un grande scontento sociale e una disaffezione per il nuovo esercizio democratico della politica.

Molti tunisini hanno smesso di credere che la politica, i partiti politici e le istituzioni possano dare risposte non solo credibili, ma soprattutto efficaci rispetto a quel bisogno di dignità che significa un minimo di servizi sociali (scuola, salute, pensioni decenti) e la possibilità di guardare al futuro dei propri figli con una ragionevole speranza che possa essere migliore del presente dei genitori. Secondo l’Osservatorio sociale tunisino sarebbero almeno un milione e 400 mila le persone sotto la soglia di povertà e 320 mila quelle in una situazione di povertà assoluta su una popolazione di 11 milioni e 400 mila persone.

Sarebbero almeno un milione e 400 mila le persone sotto la soglia di povertà e 320 mila quelle in una situazione di povertà assoluta su una popolazione di 11 milioni e 400 mila persone

Nel 2010 ci volevano circa due dinari per acquistare un euro, ora ne occorrono tre, mentre i prezzi dei generi alimentari e di prima necessità, oltre alla benzina, sono andati aumentando rapidamente. Il bilancio dello Stato non versa in una situazione migliore e di fatto dipende dalle continue iniezioni di capitali dall’esterno attraverso la cooperazione e la miriade di progetti finanziati dall’Unione europea, da singoli Stati membri oltre agli Stati Uniti, Canada e altri Paesi arabi ai quali va aggiunta anche la Turchia. I prestiti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale sono serviti negli ultimi anni a evitare che lo Stato tunisino, dopo aver superato la prova del cambio di regime e delle rivolte di piazza, andasse in bancarotta e collassasse per il crescente indebitamento. Non a caso le proteste che hanno scosso il Paese all’inizio dell’anno sono avvenute in coincidenza con la restituzione delle prime tranches del debito e le conseguenti misure restrittive del sistema finanziario e di tassazione. L’ipotesi ventilata di un taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici potrebbe avere effetti destabilizzanti per un Paese dove, fin dall’indipendenza nel 1956, lo Stato, la sua amministrazione e le imprese pubbliche hanno rappresentato i principali datori di lavoro. I segnali sono contrastanti. Proprio all’inizio del marzo scorso ha avuto fine una lunga vertenza sindacale promossa dal comparto minerario di Gafsa, dove la storia delle rivolte sociali e politiche iniziò nel 1980. Di fronte alle proteste crescenti dei lavoratori, la compagnia pubblica per lo sfruttamento dei giacimenti di fosfati che dal 2010 al 2018 ha visto triplicare i suoi dipendenti da 10 mila a 30 mila, ha annunciato la creazione di altri 7 mila posti di lavoro. Lo Stato, l’amministrazione pubblica e le aziende a partecipazione pubblica continuano a giocare un ruolo di camera di compensazione sociale nella Tunisia di oggi come in quella del passato.

Le proteste hanno scosso negli ultimi mesi la capitale, ma in realtà il loro epicentro sono diversi governatorati dell’interno e del grande Sud tunisino – non a caso le zone economicamente più depresse del Pese, lontano dalle grandi città della costa. Regioni afflitte da una storia di povertà lunga e strutturale che si è andata combinando con una altrettanto importante di contestazione e opposizione politica al centralismo di Tunisi, fin dall’epoca dell’occupazione coloniale francese nel 1881. Le rivolte delle periferie sono andate combinando alla protesta economica e sociale anche quella politica contro l’amministrazione dello Stato. Per questo motivo le elezioni municipali del 6 maggio hanno una valenza politica nazionale: per la prima volta dal 2011 le comunità locali avranno la possibilità di eleggere una propria amministrazione e, forse, potranno far valere le loro agende locali rispetto a quella di Tunisi. Fino ad oggi, nel bene e nel male, le decisioni politiche (e di politica economica) sono state infatti prese sulla base di un modello centralista che affonda le sue radici nello Stato coloniale francese e in quello postcoloniale di Habib Bourghiba.

La vera questione è se attraverso le elezioni municipali lo scontento delle periferie potrà trovare una risposta politica in modo da evitare nuovi rigurgiti di violenza e proteste popolari. La decentralizzazione dello Stato e delle sue funzioni è stata da tempo indicata come una delle azioni principali da perseguire nei diversi processi di riforma sollecitati dai donors internazionali. Il problema è che la decentralizzazione viene intesa prima di tutto come responsabilizzazione dei dirigenti e delle istituzioni locali in combinazione con un indirizzo favorevole alla privatizzazione di interi comparti produttivi: una simile interpretazione del decentramento non è necessariamente convergente con l’idea delle diverse forze politiche e sociali delle periferie dove la preoccupazione principale non è certo quella di ridurre il debito pubblico, quanto piuttosto quella di ottenere una maggiore partecipazione nella redistribuzione della ricchezza nel Paese. In questo senso l’aiuto economico e tecnico offerto dall’estero alla Tunisia rappresenta parte del problema, piuttosto che la soluzione.

Sulla base dei dati pubblicati dalla Istanza superiore indipendente per le elezioni (Isie), l’organo competente a ricevere e approvare le candidature, oltre che a garantire l’iter legislativo del processo elettorale, sono 1.053 le liste presentate da partiti politici e 859 quelle indipendenti per un totale di oltre 53 mila candidati. Ennahdha, il partito islamista, è l’unico partito presente in tutte le municipalità con 350 liste, seguito a breve distanza dalle 345 liste di Nida Tounès, il partito dell’attuale presidente della Repubblica, Beji Caid Essebsi, vincitore delle elezioni politiche del 2014. Seguono invece a lunga distanza altri partiti che si attestano sotto le 100 liste presentate, ma in alcuni casi non superano la trentina.

La competizione politica per le elezioni municipali senza dubbio vede in corsa le due maggiori forze politiche del Paese per il controllo delle periferie e, infatti, la prima scommessa è proprio quella di riuscire a provare la dimensione al tempo stesso nazionale e locale per questi due partiti a dispetto degli altri. Nel 2014 il Sud del Paese votò compattamente contro Essebsi, preferendogli Moncef Marzouki. Al contrario Ennahdha, che ha combinato al messaggio veicolato attraverso l’islam anche un certo populismo in risposta alla crisi economica, nel periodo di governo precedente al 2014 aveva cercato di dirottare importanti risorse verso le zone depresse del Paese, senza peraltro riuscirvi e finendo per investivi ancora meno degli anni di Ben Ali. Se Nida Tounés non può essere considerata avvantaggiata nelle periferie del Paese, anche per Ennahdha ci sono dunque motivi di preoccupazione.

In ogni caso le elezioni municipali rappresentano una grande opportunità da cogliere al fine di garantire una maggiore partecipazione e inclusione delle diverse componenti regionali e locali del Paese

Rimane aperta la questione di fondo che solo l’esito delle elezioni potrà rivelare: Ennahdha e Nida Tounès riusciranno a trattenere le periferie nel quadro di una politica che fino ad oggi è stata decisa al centro e ha indubbiamente privilegiato le necessità del centro, oppure saranno le istanze delle periferie a prevalere? In questo secondo caso potrebbe concretizzarsi lo scenario di un voto di protesta che potrebbe decretare, se non proprio la sconfitta dei due principali partiti, un loro sostanziale ridimensionamento in favore di altri partiti minori o delle liste civiche. Viceversa, pur in un quadro di tenuta dei principali partiti, potrebbero essere le dirigenze locali, una volta elette, ad essere in grado di negoziare migliori condizioni nel rapporto con il centro. In ogni caso le elezioni municipali rappresentano una grande opportunità da cogliere al fine di garantire una maggiore partecipazione e inclusione delle diverse componenti regionali e locali del Paese, al contrario la crisi politica oltre che economica andrà probabilmente accentuandosi in modo rapido.

 

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