Martin Luther King fu ucciso da un proiettile alla testa il 4 aprile di cinquant’anni fa a Memphis, dove si trovava per partecipare a una campagna in favore dei netturbini della città. Lo si ricorda in queste settimane in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti di Trump, uno dei presidenti più polarizzanti sulle questioni razziali del passato recente. Un presidente che, sin dall’inizio della sua corsa alla Casa Bianca, si è mosso con difficoltà di fronte a tutto ciò che riguarda gli afro-americani e la loro storia, alternando momenti di aperto razzismo – come quando si rivolse a uno dei suoi (pochi) sostenitori neri, durante la campagna per le presidenziali, chiamandolo “il mio afro-americano” – ad altri di evidente ignoranza – come quando, ormai alla Casa Bianca, ha aperto il mese dedicato alla storia e la cultura afro-americana elogiando Frederick Douglass, che per il presidente aveva fatto “un ottimo lavoro”, facendo dubitare di sapere che il più importante abolizionista nero è morto nel 1895.

Ricordi e celebrazioni, quella dedicate a King, da sempre controverse e delicate. Fu un altro presidente particolarmente riluttante a parlare di questioni razziali, Ronald Reagan, a cedere alle pressioni di politici e imprenditori afro-americani per dedicare una festa nazionale al leader dei diritti civili, nel 1983. Regan istituì il Martin Luther King Day nonostante pensasse che King fosse intimamente un comunista e che il suo ricordo fosse basato su “un’immagine, non sulla realtà”. Una realtà fortemente legata agli ultimi tre anni di vita del leader dei diritti civili, quando, ottenuta l’uguaglianza formale degli afro-americani nel 1965, estese la sua lotta al razzismo anche al Nord, organizzò un movimento a sostegno dei poveri e, soprattutto, divenne uno dei più convinti oppositori della guerra in Vietnam.

Aveva ragione Reagan, perché nei successivi cinquant’anni le celebrazioni pubbliche dedicate a King hanno quasi sistematicamente alterato il delicato rapporto tra storia e memoria, il rapporto tra che cosa è stato e come viene ricordato. Per questo motivo molti storici e attivisti hanno denunciato quella che il teologo afro-americano Cornel West ha tacciato come una “sanificazione della storia di King” che lo ha portato a essere ritratto più “come un Babbo Natale”, che non come un attivista radicale in grado di spaccare in due gli Stati uniti degli anni Sessanta.

Non era dunque un King trasversalmente celebrato quello che venne ucciso a Memphis nel 1968. Al contrario, era fortemente isolato, abbandonato da molti suoi collaboratori e attaccato politicamente da più parti. Il direttore dell’Fbi, J. Edgar Hoover, per esempio, era ossessionato dal pensiero che King fosse un comunista. Dal 1963, con l’avallo del ministro della Giustizia Robert Kennedy, lo fece spiare costantemente dai suoi agenti e arruolò informatori a lui vicinissimi, come lo storico fotografo del movimento Ernest C. Withers, al quale si devono alcuni degli scatti più rappresentativi di King. Nei giorni in cui veniva insignito del premio Nobel per la Pace nel 1964, Hoover gli fece addirittura recapitare lettere anonime che lo minacciavano di rendere pubbliche le sue presunte relazioni extraconiugali e lo istigavano al suicidio.

Isolamento, quello di King, che fu evidente anche quando nel 1966 decise di iniziare una campagna al Nord, a Chicago, convinto che dietro la segregazione abitativa si celasse un razzismo sistemico che doveva essere smascherato per essere combattuto. A Chicago fu accolto da svastiche e proteste violentissime, fu insultato, venne colpito alla testa da una pietra lanciata da un manifestante e abbandonato da molti suoi compagni, che non compresero la scelta di lasciare il Sud. Quando, nel 1967, si schierò apertamente contro la guerra in Vietnam, ruppe definitivamente i già delicati rapporti con il presidente Lyndon Johnson, le cui firme sui provvedimenti legislativi in favore dei neri sancirono il successo della stagione dei diritti civili. “Cosa vuole da me questo dannato prete nero?” – disse Johnson a un collaboratore – “Gli abbiamo dato i diritti civili e politici nel 1964 e 1965, la guerra alla povertà. Cos’altro vuole?”.

A Chicago fu accolto da svastiche e proteste violentissime, fu insultato, venne colpito alla testa da una pietra lanciata da un manifestante e abbandonato da molti suoi compagni, che non compresero la scelta di lasciare il Sud

Intanto, lo scollamento con le generazioni più giovani di attivisti si faceva sempre più forte. La pratica radicale della nonviolenza non sembrò più in grado di incanalare la rabbia dei giovani neri del Nord che non avevano vissuto sulla loro pelle la segregazione razziale e che cercavano risposte concrete all’emarginazione economica e sociale. A Harlem, da sempre fucina di istanze radicali, le sue nuove campagne non destarono interesse; nel quartiere di New York era soltanto Martin “looser” King e nei ghetti delle aree metropolitane le sirene di quel movimento di rivendicazione politica e culturale che fu il black power presero rapidamente il sopravvento sulle sue campagne contro la povertà. Nemo profeta in patria, si direbbe.

Eppure la sua morte segnò la fine di una stagione di lotte cruciali per la storia degli Stati Uniti ed ebbe un importante impatto su quelle successive. Stokely Carmichael, l’apostolo del black power, abbandonò definitivamente ogni volontà di collaborazione con i bianchi. “Quando l’America bianca ha ucciso King”, disse durante un’intervista televisiva, “ha dichiarato guerra all’America nera [...] L’unico modo di sopravvivere è quello di prendere le pistole.” Eldridge Cleaver, uno dei leader delle Pantere nere, per vendicare la sua morte si lanciò in una missione suicida contro la polizia, che portò all’uccisione di uno dei primissimi membri, Bobby Hutton, in un avvenimento controverso che segnò fortemente il destino di uno dei gruppi più radicali del decennio. In tutto 125 ghetti neri esplosero dopo la notizia della sua uccisione. Ci furono una quarantina di morti, 2.600 feriti e più di 20 mila arresti, con interi sobborghi dati alle fiamme. Violenze che incrementarono la polarizzazione dell’opinione pubblica sulle linee razziali e contribuirono all’ascesa di Richard Nixon, con la sua campagna basata su “legge e ordine”.

Dopo la morte di King gli Stati uniti si preparavano ad entrare in un decennio, quello dei Settanta, in cui le tensioni razziali riesplosero

Dopo la morte di King gli Stati uniti si preparavano ad entrare in un decennio, quello dei Settanta, in cui le tensioni razziali riesplosero, in cui sotto la presidenza Nixon il giro di vite e la repressione dei gruppi radicali afro-americani subì un’accelerazione. Ma i Settanta furono anche gli anni in cui molti afro-americani cresciuti negli anni di King e del movimento per i diritti civili entrarono progressivamente nella sfera pubblica e ne divennero protagonisti, in quell’incompleto cammino verso l’uguaglianza che ha portato all’elezione di Obama alla Casa Bianca. Parlare di King oggi, restituendo alla memoria un’immagine che vada oltre la sua mitizzazione e riscopra gli aspetti più radicali e controversi della sua storia, ci ricorda le contraddizioni di un Paese che fatica a dialogare con il proprio passato.

 

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