A coronamento di una carriera intensa e fortunata, Arrigo Levi si è accinto a scrivere il suo «come diventai giornalista» ma, si sa, la memoria ci porta dove vuole lei: così è nato questo limpido e sereno reincontro con le proprie origini, un racconto intessuto di riflessioni e ricordi, che rievoca il mondo felice della giovinezza, trascorsa in un'agiata famiglia della borghesia ebraica modenese, e poi le peripezie subite a causa dell'andata al potere del fascismo e delle leggi razziali, l'emigrazione in Argentina, il ritorno in patria, la partecipazione da soldato alla nascita di Israele, il decennio nell'Inghilterra di Churchill e di Giorgio VI, l'ingresso definitivo nel giornalismo. Ritessendo la tela della propria formazione, itinerante di paese in paese, Levi riflette anche sulla fede, sui totalitarismi, sulla tragedia della Shoah, e in pagine di lucida e spesso sorridente saggezza consegna al lettore una penetrante lezione sul Novecento.

Arrigo Levi, saggista e giornalista, e di recente consigliere dei presidenti Ciampi e Napolitano. Tra i numerosi libri pubblicati con il Mulino segnaliamo: Rapporto sul Medio Oriente (1998), Dialoghi sulla fede (con V. Paglia e A. Riccardi, 2000), America Latina: memorie e ritorni (2004) e Cinque discorsi fra due secoli (2004).

Collana "Intersezioni", Bologna, Il Mulino, pp. 296, € 16,00


►Un brano tratto dal Capitolo nono, Per non essere buttati a mare:

Non presi la decisione di partire per Israele perché fossi «sionista». Ho già detto che non lo ero, e non lo diventai, nel senso vero della parola, che implica, per ogni ebreo, una scelta di vita prioritaria in Eretz Israel, nemmeno durante l’anno di vita trascorso in Israele, come poi dirò. Io non ho mai cessato di ritenere egualmente valida, moralmente, una scelta diversa (non era «sionista», nel senso che ho detto, neppure mio padre, anche se dava contributi alle organizzazioni sioniste).

Avrei potuto, questo sì, diventare israeliano. Questo sarebbe potuto accadere, come sarebbe potuto accadere che diventassi argentino, se la guerra non fosse finita bene. La «scelta» tra vite diverse, fra un destino israeliano e un destino italiano ed europeo, fu per me serena anche se non semplice, oggetto di lunghe riflessioni durante l’anno trascorso nell’esercito israeliano e anche dopo il ritorno in Italia. Non ho personalmente obiezioni al diritto degli israeliani, come sostiene Abraham B. Yehoshua, di autodefinirsi «ebrei totali», a fronte degli «ebrei parziali» che continuano ad abitare «all’estero», nel mondo. Ma penso che ci siano in verità tanti tipi di ebrei quanti sono gli ebrei, e che siano, comunque, sicuramente «ebrei» tutti coloro (e loro soltanto) che si autodefiniscono tali; perché chi si dichiarasse ebreo senza esserlo – diciamo noi in base a una lunga esperienza di vita e di storia – sarebbe sicuramente fuori di senno. Mi sento, piuttosto, un ebreo cosmopolita, come ce ne sono stati tanti prima di me, e ce ne saranno dopo di me. Lo sono al cento per cento, come sono al cento per cento italiano. Se la somma fa più di cento, non è colpa mia, ma della storia della mia gente, e della mia vita come l’ho vissuta.