Di chi è la colpa? Chi è che crea gli stati d’animo nel Paese? Chi dà fuoco alle ceneri e chi crea l’immaginario che poi alimenta i comportamenti individuali e politici? I giornali? Già la parola sembra antiquata. I quotidiani, in Italia, li leggono da sempre in pochi. Oggi in pochissimi. Le copie vendute, tra 2007 e 2017, si sono dimezzate. I due grandi quotidiani generalisti, “la Repubblica” e il “Corriere della Sera”, sono in caduta libera da anni. 

Fossero loro a urlare, condizionerebbero ben pochi cittadini. Certo, riportano le parole dei politici. Certo, raccontano la cronaca. Certo, parlano di stupri, serial killer e altri reati. Scrivono anche “strage di alberi”, se il freddo fa morire le piante; drogano i titoli. Ma spesso non ne hanno bisogno: i politici fanno a gara a chi urla di più. I femminicidi si susseguono. Il punto è un altro, magari, come ha sottolineato un articolo di “Die Zeit” del febbraio 2018 sul contrasto tra la crescita del populismo e l’atteggiamento della classe politica e dei media tedeschi: perché scelgono certi temi anziché altri?

Resta che, non solo per i populisti, la colpa è della stampa: paradossalmente perché enfatizza alcuni fatti e ne ignora altri. Ancora più paradossalmente perché parla sempre di “cattive notizie”, salvo poi essere rimproverata perché ignora il clima di insicurezza in cui la gente pensa di vivere. Il che fra l’altro è falso: lo spazio dato a criminalità e sicurezza dal 2015 al 2017 nei telegiornali, secondo l’Osservatorio di Pavia, è aumentato dal 25% al 34%. Ma di nuovo: che cosa alimenta la paura? Nel 1999 il 46% degli italiani si dichiarava spaventato dagli immigrati. La percentuale era scesa, sempre secondo l’Osservatorio, al 33% nel 2003; si è impennata al 51% nel 2007; è scesa al 26% nel 2012, cioè nell’anno in cui nel mondo si sono impennati gli attentati terroristici; è risalita al 46% nel 2017. Poiché non appare trainata da eclatanti fatti di cronaca, la domanda è: chi detta l’agenda?

Non è l’unico paradosso. Il Quarto potere italiano che effettivamente vive, come denuncia “Die Zeit” (parlando di quello tedesco), in una sorta di endogamia perenne, in un’autoreferenzialità che lo rende, all’apparenza, poco interessato perfino al crollo delle vendite, continua a perdere pezzi. I news magazine non esistono di fatto più: persino l’"Espresso" è un allegato di "Repubblica". Gli altri periodici si occupano di gossip o di temi specifici. Oppure sono femminili, e qui i rischi di “incitamento alla violenza” si azzerano: sulle riviste di moda sarà pure passato un modello anoressico di bellezza (riflesso? Creato?), ma sono proprio le riviste femminili, in Italia, oggi, i baluardi del nuovo femminismo.

In generale, il 65% degli iscritti all’Ordine dei giornalisti è oggi precario o disoccupato. Quarto potere, allora? Certo, resta la Tv. Che non è tutta informazione, ovvio. I telegiornali sono solo un spicchio: i più seguiti sono Tg1 e Tg5, con oltre 7 milioni di ascoltatori di media. Sono anche i più istituzionali. Tolto il Tg1, gli altri principali Tg, Rai, Mediaset e La7, dal 2012 al 2017 risultano in calo.

Poi c’è il web. E qui le cose si complicano, soprattutto perché il mondo dell’informazione professionale (gestita cioè, per quanto riguarda l’Italia, da giornalisti iscritti all’Ordine), si dissolve in un mare extra-professionale. E scompare, di fatto, davanti ai numeri dei social. Facebook in Italia supera i 30 milioni di utenti, il che vuol dire che il 97% delle persone online ha un profilo attivo. E dice, scrive e diffonde quello che vuole.

Resta poi un problema già emerso con la televisione: dove finisce l’informazione e inizia l’intrattenimento? Nel febbraio 2018 è apparso sul sito Nazione Indiana, che raccoglie molti noti intellettuali italiani, un appello “Ai direttori e alle direttrici (aggiunte dopo, bontà degli intellettuali) delle reti televisive e delle testate giornalistiche”. L’appello esordiva dicendo: “Siamo studiosi e studiose, scrittori e scrittrici, preoccupati dal dilagare dell’odio nei media italiani. Odio verso le donne, i migranti, i figli di migranti, la comunità Lgbtq. Un odio che è ormai il piatto principale di moltissimi talk show televisivi nei quali vige da tempo la politica dei microfoni aperti, senza nessuna direzione o controllo”. Proseguiva sostenendo: “Le parole di odio, lo abbiamo visto chiaramente, possono tradursi in atti di violenza omicida”, tesi scientificamente e sociologicamente tutta da dimostrare. Si concludeva prima con un’indicazione di marketing: “Servono contenuti nuovi, modalità diverse, linguaggi aperti e trasparenti”, e poi con un’esortazione singolare: “Quello che chiediamo non è un superficiale politically correct. Chiediamo invece una presa in carico di un mondo nuovo, il nostro, che ha bisogno di conoscersi e non odiarsi”. Singolare sia perché il vizietto di dare indicazioni alla stampa di “creare un mondo nuovo” ha precedenti pericolosi, sia perché l’aggettivo “nostro” richiama l’accusa principale che, secondo "Die Zeit", i movimenti in crescita in Europa (populisti? Di destra? Di estrema destra? Non solo) e “la gente” fanno alla classe intellettuale e politica: quella di vivere in un mondo tutto suo, iperprotetto, che è vegetariano, gira in bici, parla le lingue e ha studiato all’estero (sembra una battuta, ma in fondo…). Ossia vive in un mondo migliore e illuminato. Ma non di tutti.

Il giornalista del "Corriere della Sera" Aldo Grasso ha avuto gioco facile ad accusare l’appello di superficialità. Dopo aver commentato che il vero guaio dei talk show, residuo in una precedente era televisiva, è che sono lunghi e noiosi, il critico annota: “Pensare però, come pensano gli appellanti, che le parole dei talk possano tradursi in atti di violenza omicida (si cita l’attentato di Macerata) è una solenne sciocchezza. Come quelli che pensano che la serie Gomorra abbia generato le baby gang di Napoli”. Grasso ricorda che la tesi secondo cui esiste un collegamento diretto tra quanto diffuso dai media e i comportamenti degli individui era in voga negli anni Venti, ma è stata poi smentita. Ed è importante dirlo perché proprio negli anni Venti presero a funzionare le più straordinarie macchine propagandiste (non d’informazione) politiche: quella nazista e quella sovietica, delle quali il fascismo fu ottimo maestro e la Chiesa cattolica fu la madre. Il titolo Popolo italiano corri alle armi! che invadeva la prima pagina de "Il Popolo d’Italia" dell’11 giugno 1940 era di sicuro un’istigazione alla violenza (o ancora qualcuno tiene fuori la guerra dall’elenco?) e senz’altro la dichiarazione di Mussolini suscitò l’entusiasmo di masse numerose. Ma la situazione attuale è ben lontana dal martellamento di una propaganda unica. Certo, resta un’ambiguità: il confine tra propaganda e informazione è evidentemente labile, come dimostrano i media legati a movimenti politici. Basti pensare al blog di Grillo. Ma la formazione dell’opinione pubblica è questione ben più complessa e tutt’altro che risolta dagli studiosi. Lo è nelle società tradizionali, in cui la formazione è monopolizzata (dalla comunità, dallo Stato, dalla Chiesa ecc.). Figuriamoci in quelle attuali, in cui i flussi di informazioni sono imponenti, vari e incontrollati. Ma soprattutto accessibili (questa è la vera novità dei Duemila).

Tutt’al più verrebbe da chiedersi come mai, a fronte di tante informazioni, la gente continui a coltivare pregiudizi e comportamenti secolari piuttosto primitivi. Oppure perché creda ancora alle bugie: le cosiddette fake news evidentemente sono vecchie come l’uomo, anche a non voler fare gli agnostici a tutti i costi. Ed è vero che qualsiasi “caccia alle streghe” o pogrom nasce da un rapido passaparola, ovvero da un’informazione falsa. Ma è un dato di fatto che le crociate si sono diffuse ben prima dell’invenzione della stampa.

Inoltre bisognerebbe evitare il curioso strabismo storico di cui, da qualche tempo, soffrono anche alcuni gruppi femministi. Ovvero che le cose, oggi, vadano “peggio”. Gli indicatori sono tutti contrari. La condizione femminile è migliorata. Ed è migliorato (infinitamente) il modo con cui i media trattano le donne: basta sfogliare qualche vecchia raccolta di giornali. La misoginia, solo per citare un giornale di “sinistra”, dell’"Espresso" negli anni Sessanta è inquietante. La violenza è diminuita: il numero di omicidi commessi nel nostro Paese scende costantemente dal 1992. Nel 2016 era di 0,8 assassinii per 100 mila abitanti. Subito dopo l’Unità nazionale, era di 6,8 per 100 mila abitanti. E studi affidabili sostengono che fosse di 62 per 100 mila abitanti nella prima metà del Quattrocento.

Il punto è anche: che cosa giudichiamo violento o discriminante? L’Italia non è mai stata così tollerante verso i gay. E nel 1938 ha accettato ignobili leggi razziali senza battere ciglio (a livello di massa). La violenza contro le donne è stata benedetta dallo Stato almeno fino all’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio “riparatore” del 1981. E perché poi da qualche anno c’è così poca allerta sociale e indignazione sulle mafie e sulla corruzione? Perché serve il sangue ad accendere la fantasia collettiva (il che spiegherebbe anche il “successo” mediatico degli attentati terroristici in Occidente)? Ma chi oggi sarebbe in grado di indicare gli anni Novanta come perennemente insanguinati dai delitti di mafia? Se all’università gli studenti riconoscono le Brigate rosse come responsabili della Strage di piazza Fontana la colpa non è certo dei giornali (magari del fatto di non averli letti). Ma chi è riuscito a far passare un’idea così stramba nella memoria collettiva e quanto questa falsa memoria condiziona le scelte politiche a distanza di decenni?

Questo pone anche il problema di distinguere se le persone esprimono certe idee per conformismo o convinzione: in democrazia non è una variante irrilevante. Ed è difficile capire se i politici manifestano ciò in cui credono o si attengono al principio di Napoleone: “I leader sono mercanti di speranza”. La campagna elettorale tutta-slogan del 2018 ne è un esempio: sembra un inseguimento di elettori recalcitranti.

Stiamo ancora dibattendo sul perché Hitler sia salito al potere: come possiamo permetterci di banalizzare i modi della formazione delle idee di massa oggi? Questo ovviamente non esime gli intellettuali illuminati di cui sopra dall’assumersi le loro responsabilità. A dirla tutta l’appello di Nazione Indiana sembra andare in direzione contraria. Evidentemente, la storia insegna poco: uscendo con il volto tumefatto da un interrogatorio-pestaggio nazista a Regina Coeli (era stato portato al braccio tedesco perché qualcuno l’aveva tradito), Leone Ginzburg disse: “Non dobbiamo odiare i tedeschi”. Ossia, sono proprio gli intellettuali, anche nei momenti in cui sembra così chiaro che cosa sia il male e che cosa il bene, a non dover abdicare all’accettazione della complessità del reale, e a dover promuovere non solo una lettura della realtà che tenga conto delle sue contraddizioni, ma a farsi carico di quella piccola torcia che, almeno da 300 anni, puntiamo verso ciò che consideriamo “progresso”. Costa caro. Certo. Non lo sapevamo?

 

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