A partire dal 2020 gli italiani dovranno cambiare i propri televisori per adeguarli a un nuovo standard (il DVB-T2 che andrà a sostituire l’attuale DVB-T), ripetendo, in tempi molto più rapidi (due anni invece che quattro), quanto è stato fatto nel 2008 con il passaggio dall’analogico al digitale terrestre. Ciò costituirà un aggravio finanziario per le famiglie, anche perché si presume che, come accaduto per il digitale, molti preferiranno comprare i nuovi modelli di apparecchi televisivi piuttosto che dotarsi di un decoder. Non a caso già nella Legge di Bilancio sono stati stanziati 100 milioni come contributo alle famiglie per la sostituzione dell’apparecchio televisivo (destinati inizialmente ai due milioni di utenti già esonerati dal pagamento del canone Tv). È probabile che la cifra aumenterà, magari attingendo all’extra gettito del canone di abbonamento determinato dal nuovo sistema di riscossione ancorato alla bolletta elettrica, che ha di fatto quasi annullato l’alta evasione (circa il 35%) esistente precedentemente.

Il nuovo standard DVB-T2 comporterà l'ultra-definizione delle immagini, mentre il sistema di compressione del segnale permetterà di ampliare ulteriormente il numero dei canali, ancor più di quanto avvenne col digitale. L’industria elettronica, com’è facile intuire, aumenterà notevolmente il suo business (si stima che vi siano 1,5 televisori in media a famiglia). Si prospetta inoltre un profondo cambiamento che non riguarderà solo la Tv, ma anche le telecomunicazioni e la trasmissione dati.

Il cambio dello standard trae origine dal fatto che l’Europa preme per liberare la banda 700MHz dalle trasmissioni televisive in favore delle comunicazioni mobili, in modo da arrivare allo standard di quinta generazione, il 5G, che permette un netto miglioramento del servizio, sia per velocità di connessione sia per copertura del segnale.

La vicenda implicherà scelte delicate. Innanzitutto lo Stato dovrà rimborsare i gestori delle torri televisive per l’abbandono delle vecchie frequenze (sono stati già stanziati circa 300 milioni per misure compensative dei costi aggiuntivi che i gestori dovranno sobbarcarsi). Ciò dovrebbe sollecitare la realizzazione di un gestore unico, che comprenda i principali operatori, da Rai Way a EiTowers (Mediaset). Nel contempo si prevede che dall’asta per le nuove frequenze 5G lo Stato possa incamerare circa 3 miliardi.

Quali considerazioni si possono ricavare da questa vicenda? Innanzitutto va rilevato che le difficoltà nel riordino del sistema nascono dal fatto che in Italia le trasmissioni televisive utilizzano ancora in prevalenza l’etere (il satellite ha una quota limitata). Negli altri Paesi europei, invece, coesistono tre sistemi: l’etere, il cavo e il satellite. In particolare, è la televisione via cavo a prevalere nel resto d’Europa, permettendo di superare gli ostacoli del «sovraffollamento» nell’etere.

Un’altra importante questione è quella del ritardo sulla cablatura in fibra ottica del nostro territorio, ossia la rete sulla quale far viaggiare la voce, i dati e i video. Una rete già esiste ed è quella di Tim, ma è basata su una tecnologia superata, quella del rame, che andrebbe sostituita con la fibra ottica da far arrivare fin dentro le abitazioni. Il processo di ammodernamento della rete sta andando avanti, ma lentamente e privilegiando le zone più remunerative. Diversi operatori si sono aggiunti a Tim, come Enel e Open Fiber (partecipata della Cassa depositi e prestiti), quando invece un investimento così rilevante richiederebbe uno sforzo comune. La logica suggerirebbe di scorporare la rete da Tim e farla diventare una società aperta a tutti gli operatori del sistema, siano essi privati o pubblici. Ovviamente le valutazioni economiche sono diverse a seconda dei protagonisti coinvolti, ma lasciare fuori dalla partita Tim sembra un controsenso, in quanto si rischierebbe di doppiare i costi, che ricadrebbero quindi sugli utenti finali (comprese, forse, le tariffe dell’energia elettrica).

Il mercato da solo non può risolvere questi problemi – si pensi, per esempio, che più di un terzo della popolazione non sarebbe servita dal cavo in fibra ottica qualora si guardasse alla sola rimuneratività dell’operazione. Per questo deve intervenire lo Stato, non tanto con proprie società, quanto promuovendo e coordinando le iniziative private con proprie partecipazioni e prerogative (come ha fatto il governo, ad esempio, attivando la golden power sulla rete Tim). Per molti una rete Internet davvero funzionante (più del 60% della popolazione è connesso) sarebbe più utile di un moderno televisore, anche perché proprio dalla rete si potranno vedere in futuro i propri programmi preferiti.

Infine va ricordato che nel mondo televisivo sono stati pochi i cambiamenti tecnologici. Gli unici degni di nota sono stati l’introduzione del colore nel 1977 e l’arrivo del digitale terrestre nel 2008. In particolare, è stata quest’ultima tecnologia a cambiare molto lo scenario. A prescindere dalla qualità nettamente superiore delle immagini e del suono, grazie alla compressione del segnale è stato possibile l’ampliamento delle emittenti. Se prima i canali nazionali free via etere non arrivavano a quindici, ora sono più di novanta. L’offerta si è ampliata con l’ingresso di importanti operatori. L’oligopolio Rai-Mediaset ha subito una scossa: nel 2000 Rai e Mediaset insieme arrivavano al 91% dell’ascolto, nel 2010 la quota è scesa all’81%, mentre attualmente siamo al 71%. Nel 2022, alla fine dell’introduzione del nuovo standard, i due oligopolisti scenderanno ancora, così da rendere più competitivo il sistema Tv?

Nella prossima legislatura gli argomenti qui trattati, dall’introduzione del nuovo standard di televisione (con una nuova numerazione dei canali), all’ipotesi di un gestore unico delle torri e alla realizzazione della cablatura del Paese, diventeranno di attualità. Ci sarà ancora, però, il ben noto «berlusconiano» conflitto d’interessi, che la maggioranza attuale non ha disciplinato, pensando forse che non fosse una priorità.

 

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