La complessa azione di governo delle migrazioni dal Nord Africa verso l’Italia, messa in campo dal ministro dell’Interno Marco Minniti, ha sollevato un vespaio di consensi e dissensi sia a destra sia a sinistra. Si è trattato di un buon termometro della delicatezza del problema migratorio e delle difficoltà cui vanno incontro le politiche che cercano di governarlo. Ciò che mi preme evidenziare in questa sede è che, anche nelle prese di posizione di coloro che pensano sia necessario regolare i flussi migratori, non sempre appare chiaro il piano temporale sulla base del quale le varie azioni di governo vengono giudicate nella loro specificità e nella loro reciproca congruenza. Si tratta di una questione centrale su cui conviene soffermarsi.

Vediamo le azioni di breve periodo intraprese dal governo. Le direttive di coordinamento tra le organizzazioni pubbliche e private deputate al salvataggio in mare erano necessarie (malgrado l’atteggiamento recalcitrante di alcune Ong) per evitare che questa azione di salvataggio finisse per essere scollegata dall’insieme del processo migratorio che coinvolge i Paesi di partenza e quelli di arrivo dei migranti. Questo coordinamento comportava operazioni da realizzare nei Paesi di partenza e in quelli di arrivo. Nei primi, erano necessari accordi con i governi locali per amministrare i flussi e contrastare i trafficanti di esseri umani. Con i secondi, andavano gestiti l’allocazione dei migranti tra i vari Stati europei e il loro processo di integrazione. Si tratta, come è facile capire, di azioni di medio e di lungo periodo. Infine, non poteva essere trascurata l’operazione più importante e decisamente di lungo, se non di lunghissimo, periodo nel governo dei flussi migratori, consistente in sostanziosi aiuti allo sviluppo dei Paesi di partenza, ben coordinati e appropriatamente gestiti.

L’azione del ministro Minniti ha agito su tutti questi fronti, dunque ha cercato coerenza e congruenza sui piani temporali del breve, del medio e del lungo periodo. Ha optato, giustamente, per una visione sistemica del problema. Una visione molto esigente che può essere coronata da successo solo se i vari aspetti vengono risolti positivamente o, perlomeno, senza eccessivi scarti negli obiettivi raggiunti. Ma proprio in questa impostazione sistemica risiedono, oltre ai punti di forza, anche i potenziali elementi di debolezza.

Il coordinamento tra organizzazioni pubbliche e private può uscire da una logica emergenziale solo attraverso una programmazione dei flussi migratori che comporta, come abbiamo appena detto, un’azione nei Paesi di partenza e in quelli di arrivo. E qui entriamo nel cuore del problema. Quando l’interlocutore del Paese di partenza, come nel caso libico, è politicamente debole, diviso e ambiguo, è difficile garantire il rispetto degli accordi. Che vogliono dire lotta al traffico illegale di migranti e rispetto della loro dignità nei centri di accoglienza e selezione. Le pressioni di Minniti per coinvolgere l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nella supervisione di questi aspetti sono state un passo importante. Ma, certamente, molto deve essere ancora fatto sul piano del rispetto dei diritti umani e per il superamento dei centri di detenzione dei migranti tramite l’apertura di canali migratori legali. Per non parlare delle difficoltà di selezione dei richiedenti asilo in Europa: quali e quanti criteri adottare, una volta definita l’entità dei flussi? Come distinguere efficacemente tra rifugiati e migranti economici? Come scegliere quote predefinite di soggetti in una platea molto più ampia di persone con uguali ed elevati livelli di vulnerabilità? Si tratta di processi che sollevano acuti dilemmi morali, con i quali anche l’efficace esperimento dei corridoi umanitari ha finito per scontrarsi.

Anche riguardo ai Paesi di destinazione i problemi non mancano. Una volta definite le quote di riallocazione dei migranti, non è detto che i vari Paesi le rispettino, come l’esperienza europea purtroppo insegna. Non si tratta solo di una carenza di coordinamento internazionale tra Stati, ma anche di diverse sensibilità politiche e sociali di fronte ai flussi migratori su cui il nostro governo ha poche possibilità di intervento. È necessario poi definire appropriatamente i processi di integrazione (temporanea o definitiva). Pure in questo caso, la previsione di piani di insegnamento della lingua e dei principi costituzionali vigenti nel Paese di arrivo è un significativo punto fermo nelle direttive del ministro dell’Interno, confluite nel recente «Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale». Bisogna però riuscire a definire in modo più operativo l’entità delle risorse da investire per favorire i processi di integrazione sociale, gli spazi e i percorsi professionali messi a disposizione nel mercato del lavoro (si veda, a questo proposito, l’interessante ricerca di A. Betts e P. Collier, Refuge, Allen Lane, 2017) e i diritti di cittadinanza degli immigrati. Compiti non facili, fonte di costanti polemiche, come anche le tormentate vicende italiane dello ius soli stanno a testimoniare.

Infine, veniamo alla politica di più lungo periodo, costituita da aiuti allo sviluppo dei Paesi africani tesi a favorire mutamenti economici e politici diretti a contenere l’esodo migratorio. Su questo aspetto il governo ha senz’altro insistito molto in sede europea. La storia ci insegna però che in questi anni un certo volume di aiuti c’è stato, ma che è clamorosamente mancata una loro gestione efficace atta a mobilitare e assistere i potenziali agenti dello sviluppo. Di ciò sono responsabili sia i Paesi donatori sia i Paesi beneficiari. È necessario perciò un cambiamento radicale nella gestione di questi aiuti, che permetta il passaggio da un approccio prevalentemente umanitario a un approccio più decisamente orientato allo sviluppo, tutto da costruire e di cui è ancora difficile prevedere l’evoluzione. In conclusione, possiamo affermare che l’aspetto positivo delle direttive Minniti è che esse sono collocate in una prospettiva sistemica. La loro potenziale debolezza dipende dal fatto che molti degli obiettivi delineati sono di ardua realizzazione. Vale la pena però giocare questa difficile partita, piuttosto che farsi paralizzare dalle difficoltà.

 

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