Una nuova direzione nelle relazioni Usa-Iran. «La nostra politica estera ha un giudizio molto chiaro sulla dittatura iraniana, il suo supporto al terrorismo e la sua persistente aggressività in Medio Oriente e nel resto del mondo». Con queste parole, Donald Trump ha preannunciato un cambio di direzione nelle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Iran, a partire dalla ridiscussione dell’accordo multilaterale sul nucleare con Teheran, siglato nel luglio del 2015 dagli Usa insieme ai cosiddetti Paesi del 5+1 (Francia, Regno Unito, Cina, Russia e Germania) e dall’Unione europea.

Il Joint Comprehensive Plan of Action, considerato uno dei principali successi in politica estera delle due amministrazioni Obama, prevede, da una parte, la limitazione del programma nucleare iraniano e l’autorizzazione a controlli periodici alle installazioni nucleari, e dall’altra l’allentamento e la progressiva eliminazione delle sanzioni economiche imposte nell’ultimo decennio da Stati Uniti, Unione europea e Nazioni Unite.

Per Donald Trump sono fondamentalmente tre le ragioni che giustificherebbero la non certificazione dell’accordo: il dispiegamento da parte dell’Iran di missili balistici intercontinentali, il rifiuto di negoziare l’estensione dell’accordo sul controllo delle attività nucleari e l’evidenza che tuttora il regime può costruire una bomba in meno di dodici mesi.

Il presidente americano aveva riacceso i toni del confronto con l’Iran già a settembre, nel suo atteso discorso di debutto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, accusando il governo di Teheran di essere una corrotta dittatura sotto le mentite spoglie di una democrazia. Nemmeno un mese dopo, con un linguaggio che rievoca quello della stagione della lotta al terrorismo post-11 settembre e del discorso sull’«Asse del male» di George W. Bush, Trump ha accusato la Repubblica Islamica di aver trasformato una nazione ricca in un «rogue State» che esporta violenza, sangue e caos, finanzia le imprese di Hezbollah e altre organizzazioni terroristiche, sostiene il regime di Bashar al-Assad e destabilizza lo Yemen e altri scenari mediorientali.

Su queste basi, ha poi definito l’accordo del 2015 uno dei peggiori, frutto di una delle «contrattazioni più a senso unico della storia», con riferimento alle concessioni fatte al ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif soprattutto sulle tempistiche per la riconversione in programmi «civili» dei piani nucleari. Nel discorso del 13 ottobre ha alzato ulteriormente il tiro denunciando i rapporti del governo Rouhani con Al Qaeda, con i talebani e con Hamas per poi sottolineare come i due cori più popolari della nazione siano tuttora «morte all’America» e «morte a Israele».

La ricostruzione storica di Donald Trump, che ha messo in rapida sequenza la rivoluzione del 1979, l’occupazione dell’ambasciata di Teheran, gli attentati di Hezbollah del 1983-1984, quelli in Arabia Saudita del 1996 e delle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, il sostegno degli iraniani ad Al Qaeda e la retorica aggressiva del governo Ahmadinejad, ha però omesso i recenti progressi in senso democratico emersi con l’esplosione del Movimento Verde del 2009 e con l’elezione del moderato Hassan Rouhani del 2013, rieletto nel maggio del 2017.

Così come la denuncia dei 100 miliardi di dollari destinati in seguito all’accordo al regime iraniano è apparsa strumentale, trattandosi non di un assegno in bianco per il governo Rohuani, ma dello sblocco di asset iraniani precedentemente congelati ed equivalenti a obbligazioni sul debito con altri Paesi, come la Cina. Anche i 1,7 miliardi spediti a Teheran dall’amministrazione Obama con un trasporto aereo speciale, come ha raccontato Trump nel suo discorso, non sono altro che il «rimborso» dei 400 milioni di dollari – più gli interessi accumulati nel corso di 35 anni – spesi dall’allora alleato Reza Pahlavi per un acquisto di beni militari mai più recapitati dagli Stati Uniti, per effetto del colpo di stato del 1979.

Per rafforzare le ragioni dell’inversione di rotta, Donald Trump ha inoltre fatto riferimento a presunte intimidazioni dell’Iran nei riguardi degli ispettori internazionali, smentite già a settembre dal direttore della International Atomic Energy Agency, Yukiya Amano.

Pur rinunciando all’idea di far approvare nuove sanzioni che farebbero naufragare l’accordo del 2015, Donald Trump ha dato al Congresso sessanta giorni per aumentare le pressioni sul governo iraniano.

A complicare le cose è stata l’immediata condanna dei leader dei Paesi che avevano siglato l’intesa con Teheran, oltre che del presidente Rouhani. Né i numeri in Senato, dove per far passare un provvedimento del genere occorrerebbe la maggioranza qualificata di 60 voti (otto in più dei rappresentanti «repubblicani» alla camera alta del Congresso americano), sembrerebbero dare una mano a Donald Trump.

Anche perché nello stesso campo repubblicano non mancano le voci più scettiche su questo cambio di strategia nelle relazioni con l’Iran, con divisioni interne all’amministrazione e allo staff, dalle posizioni più vicine a Trump, espresse ad esempio dall’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Nikki Haley, a quelle più caute e moderate del segretario di Stato Rex Tillerson.

Un ulteriore provvedimento potrebbe avere ripercussioni ancora più delicate con la decisione del Dipartimento del Tesoro di inserire il Corpo delle Guardia della Rivoluzione Islamica nella lista delle organizzazioni terroristiche. La decisione è stata contestata proprio dal Dipartimento di Stato perché potrebbe impedire all’esercito americano di collaborare con i corpi iraniani in scenari di crisi, come sta già avvenendo nelle operazioni militari contro lo Stato Islamico.

 

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